venerdì, marzo 08, 2013
L’aumento delle testimoni di giustizia al femminile è un fenomeno che sta dando una serie di risultati eccezionali non solo a livello giudiziario ma anche sul piano sociale e culturale. Le donne che decidono di denunciare gli atti criminali dei loro uomini sono in grado di rompere il muro dell’omertà e consentono ai propri figli di intravedere un futuro migliore

di Paola Bisconti

L’immagine comune vede i mafiosi sostenuti dalle proprie mogli rassegnate, descritte come inermi, spesso in lacrime per i frequenti lutti, con i volti che esprimono la loro sottomissione e in grado quando occorre di gridare a squarciagola l’innocenza dei propri mariti. Questo è ciò a cui si è creduto per tanti anni, ma un bellissimo libro di Alice De Toni intitolato “Dolentissime donne. La rappresentazione giornalistica delle donne di mafia” edito da Clueb dimostra che in realtà esiste una “mafia rosa” senza la quale le grandi organizzazioni criminali italiane non potrebbero continuare ad operare. Zia Calina, per esempio, era una simpatica nonnetta che fino alla veneranda età di 81 anni ha tessuto la tela della criminalità organizzata gelese. Calogera Pia Messina, l’anziana madre di Daniele Emmanuello, capo-mafia del capoluogo siciliano che dopo 15 anni di latitanza è stato ucciso, impartiva ordini agli affiliati, gestiva con abilità i traffici di droga e riscuoteva il pizzo dalle attività commerciali.

Per i magistrati l’importanza del ruolo delle donne all’interno dell’attività mafiosa non è una novità, infatti sin dalle inchieste di Falcone la procura di Palermo chiamava “signore della mafia” le abilissimi casalinghe che dietro l’aria da perfette massaie spacciavano droga nascondendola sotto i foulard annodati sul capo oppure nel reggiseno o nelle pancere. Ci sono anche dottoresse che si sono prestate a falsificare il quadro clinico o i dati anagrafici dei boss ricoverati nelle strutture ospedaliere, così come molte mogli diventate trait d’union fra i mariti rinchiusi in carcere e gli affiliati fuori dalle sbarre.

In mezzo a questo panorama di complicità c’è però chi ha deciso di fare la differenza sfidando l’invincibilità mafiosa. A tal proposito un anno fa durante il mese di marzo dedicammo ampio spazio alle donne che con coraggio e determinazione si sono battute nella difesa dei propri diritti, in nome della giustizia. Già allora abbiamo voluto soffermarci sulle tante affascinanti figure femminili approfondendo in particolare la storia di Giuseppina Pesce, Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciolo. La collaborazione al femminile è una forma eccezionale di ribellione al sistema mafioso e alla cultura maschilista che predomina in queste organizzazioni dove le donne sono usate come strumento di alleanza tra le famiglie, fanno da cassiere delle cosche e sono usate per l’intestazione dei beni. Ma anche per inculcare ai figli l’ideologia mafiosa: molte mamme infatti addormentano i fanciulli cantando loro la “ninna nanna du malandrineddu”, che recita “cresci in fretta, impugna la pistola per vendicare tuo padre…”.

Altre donne invece non approvano i crimini dei mariti, per questo decidono di denunciarli, spinte spesso dal desiderio di salvare i propri figli. Denise Cosco, figlia di Lea Garofalo, è la prova vivente che nonostante la paura sia possibile sconfiggere la mafia. La giovane ragazza non vuole che sia vano il sacrificio di sua madre, torturata e poi uccisa perché considerata “traditrice” per le sue scottanti rivelazioni. Oggi Denise è proprio il simbolo della lotta alla mafia, il simbolo di un flebile coro di voci femminili pronte però a cambiare le sorti della storia, che troppo spesso le ha voluto relegate e sottomesse. Auguri sinceri a tutte le donne che sono in grado di combattere e ribellarsi a tutte le forme di ingiustizia sociale!

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