sabato, novembre 03, 2012
La giornalista Jila Bani Yaghoob, in carcere a Teheran, continua a combattere il regime iraniano insieme al marito Bahman Ahmovee

di Paola Bisconti

La parità dei diritti delle donne continua ad essere un miraggio, in particolare in alcuni stati del Medio Oriente dove vige una cultura fortemente maschilista. In Iran, per esempio, le donne non possono rivestire cariche politiche, né tanto meno essere giudici, e la loro testimonianza in un’aula di tribunale vale la metà rispetto a quella di un uomo. Inoltre la gran parte delle ragazzine sono costrette a sposare uomini molto più grandi di loro, i quali tra l’altro possono praticare la poligamia e scegliere di divorziare. Per questo e molto altro la comunità femminile ha deciso di ribellarsi allo stato di sottomissione in cui è costretta a vivere.

Gli sforzi delle donne, tuttavia, sono ripetutamente repressi dalle autorità governative, suscitando forte indignazione, tanto che alcune associazioni come Amnesty International hanno chiesto ufficialmente di porre fine alle continue intimidazioni perpetrate nei confronti delle donne che manifestano per i loro diritti. La maggior parte dei cortei di protesta, infatti, si sono conclusi con metodi violenti, come è accaduto nel 2006 a Teheran dove le donne furono prese a bastonate dalla polizia, che violò espressamente l’articolo 27 della Costituzione, che sancisce il diritto di svolgere dei raduni pacificamente. Spesso le autorità hanno tentato di “giustificare” la loro inaccettabile violenza definendo i movimento di protesta come cospirazione nemica.

Uno dei principali bersagli di questa lotta fra i politici e le donne è Jila Bani Yaghoob, una delle prime giornaliste reporter iraniane. A causa del suo attivismo a favore della difesa dei diritti del mondo femminile, è stata intimidita diverse volte e fatta arrestare con l’intento di mettere a tacere le sue accuse e le molteplici denunce che pubblicava nelle sue varie inchieste. La gran parte dei reportage sono stati pubblicati nel suo blog “Siamo giornaliste”, grazie al quale ha ricevuto il premio “Best of Blogs” per aver contribuito a diffondere notizie relative ai problemi della società iraniana. Il regime però ha vietato l’accesso al blog, così come ai social network (Facebook, Twitter, YouTube). Jila Bani Yaghoob è sostenuta in questa difficile battaglia dal marito, nonché collega, Bahman Ahmadi Amovee, giornalista del quotidiano Sarmayeh, che si occupa di economia e ha criticato nei suoi articoli la politica finanziaria del regime di Teheran. Insieme si sono impegnati a svolgere delle inchieste molto scottanti, come quella dove denunciavano i brogli riguardo l’elezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad e rivelarono una serie di frodi massicce e falsificazione dei risultati, oltre ad accusare il blocco effettuato dal governo verso qualsiasi genere di comunicazione, dai cellulari ai social network, avvenuta proprio nei giorni delle elezioni.

Il reportage è costato ad entrambi l’arresto nel 2009: sono stati condannati a 5 anni di detenzione insieme con l’accusa di “propaganda contro il sistema, minaccia alla pubblica sicurezza e offese al presidente”. Dopo aver scontato la pena nel carcere di Evin, gli attivisti saranno costretti a 30 anni di interdizione dalla professione giornalistica. Questa pena è sicuramente la più crudele, considerando che preclude loro la libertà di parola. La prigione di Evin, a Teheran, è nota per essere il carcere che ospita il più alto numero di giornalisti: attualmente se ne contano 70, tra cui 33 donne che hanno scritto e denunciato un sistema maschilista e oppressivo.

Recentemente il sito Persian Icons ha pubblicato una lettera scritta da Jila al suo compagno che a giugno è stato trasferito nel penitenziario di Rajai Shahr. Jila Bani Yaghoob descrive i suoi giorni di detenzione trascorsi insieme ad altre attiviste appartenenti a orientamenti politici e religiosi differenti. Mette così in evidenza il pacifico equilibrio che si è creato fra di loro e rivolge una domanda a tutti i suoi lettori: se questa convivenza è possibile dietro le sbarre, perché non dovrebbe realizzarsi in tutto il paese?

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