domenica, ottobre 28, 2012
Intervista ad Antonio Nicaso, giornalista, scrittore e grande esperto di ‘ndrangheta, che ci spiega in modo dettagliato il fenomeno della criminalità organizzata calabrese

di Paola Bisconti

Antonio Nicaso è uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta. Nato a Caulonia, in provincia di Reggio Calabria, ha avuto modo di esaminare il fenomeno mafioso con i suoi stessi occhi, approfondendo poi la questione con studi dettagliati. Il giornalista è autore di numerosi testi che raccontano i molteplici aspetti della criminalità organizzata, molti dei quali tradotti in tutto il mondo, tra cui “Global Mafia”, pubblicato nel 1995, che introduce per la prima volta il concetto di partenariato criminale. Da anni vive e lavora in America, dove tiene corsi estivi ai post-laureati presso il Middlebury College riguardo alla storia delle organizzazioni criminali. A breve uscirà l’ultimo libro “Dire e non dire”, scritto insieme al magistrato Nicola Gratteri, amico nonché conterraneo e co-autore di numerosi testi.

D - Come si può sollecitare l’Unione Europea affinché introduca il riconoscimento del reato di associazione per delinquere anche negli stati membri dove la mafia si è sviluppata ma non viene punita per questo? L’Italia combatte sola contro tutti?
R - Un passo in avanti è stato fatto con l’istituzione della commissione parlamentare europea antimafia, grazie alla determinazione dell’on. Sonia Alfano. C’è molto da fare, l’Italia è uno dei pochissimi Paesi al mondo che riconosce il reato di associazione mafiosa. È tempo di globalizzare l’azione di contrasto, di coordinare gli sforzi investigativi, di impoverire i mafiosi ovunque si trovino, attraverso le confisca dei beni illegalmente conseguiti. L’abbattimento delle barriere europee finora ha favorito solo le mafie. La lotta alla criminalità organizzata deve diventare prioritaria nell'agenda politica dei paesi membri dell'Ue.

D - Nei suoi libri si rivolge soprattutto ai ragazzi; con quale spirito osserva le nuove generazioni? Con pessimismo, constatando i valori futili e la smania di apparire che domina su tutto, oppure con ottimismo e con la convinzione che possano contribuire a debellare il fenomeno mafioso?
R - Sono ottimista per natura, ma non vivo di illusioni. Mi viene in mente la frase di un boss di Cosa Nostra, il quale, riferendosi ai progetti sulla legalità, diceva: lasciateli fare, tanto quando avranno bisogno di un posto di lavoro verranno da noi. Bisogna comprendere che la lotta alle mafie consiste anche nell’affrancamento dal bisogno. Se i diritti continueranno ad essere confusi con i favori, i favori diventeranno ricatti. C’è tanto ancora da fare, bisogna incoraggiare i giovani ad accostarsi alla politica che deve tornare a essere servizio, non privilegio. Ma bisogna soprattutto capire che per combattere le mafia bisogna arginare soprattutto la corruzione politica, investire nella scuola, nei servizi sociali e comunitari, nella famiglia.

D - I mafiosi sono “menti sveglie”, che conciliano per esempio i riti primitivi con le nuove tecnologie, per esempio i sistemi di instant messaging che, essendo criptati, non sono intercettabili. Ciò aumenta certamente le difficoltà per gli inquirenti. Quale strategia si potrebbe adottare per scongiurare la crescita della criminalità organizzata?
R - Non esiste una ricetta per scongiurare la crescita della criminalità organizzata. Bisogna partire dalla conoscenza del fenomeno e trovare sensibilità e convergenze politiche. Finora molti hanno fatto finta di non vedere o si sono serviti delle mafie per mantenere i propri privilegi. Ricordo che, quando Roberto Saviano espose un concetto che era evidente, come quello delle proiezioni della 'ndrangheta al Nord, venne duramente criticato, come se fosse incorso nel reato di lesa maestà. Se continueremo ad assumere quell'atteggiamento di ostilità nei confronti di chi denuncia, non ci libereremo mai delle mafie.

D - La strage di Duisburg, oltre ad essere stata un fatto eclatante che ha risvegliato le coscienze anche dei tedeschi, è stata classificata come una strategia frutto della trattativa tra Stato e mafia. Quando l’anno scorso il giornalista Gianluigi Nuzzi intervistò il magistrato Nicola Gratteri ospite del programma “Gli Intoccabili”, fu evidente lo stupore del procuratore, noto per la sua limpida onestà, che per la prima volta sentiva di questi probabili accordi. Lei cosa pensa a tal proposito, soprattutto della corruzione che dilaga nel mondo politico?
R - Senza la politica le mafie non potrebbero sopravvivere. Senza avvocati, commercialisti, broker non potrebbero riciclare gli enormi profitti della droga. Senza il silenzio di tante persone, non riuscirebbero a imporsi. Se non partiamo da questa consapevolezza non riusciremo a comprendere l'essenza delle mafie. Gratteri è un magistrato che non ama i compromessi. Ma purtroppo la storia delle mafie è fatta di compromessi, di trattative. Bisognerebbe fare luce su questi momenti equivoci della nostra storia. Bisognerebbe avere il coraggio di desecretare tutti i documenti in grado di far luce sulle tante trattative tra Stato e mafia. Sarebbe un bel modo per iniziare seriamente a combattere le mafie.

D - I suoi studi approfonditi sulla questione mafiosa hanno svelato che la criminalità organizzata si insidia lì dove c’è denaro. Ma può essere questa “moneta del diavolo” l’unico vero motore delle ambizioni dei boss? Oppure c’è qualcosa di più profondo custodito gelosamente fra i tanti segreti che si celano nelle ‘ndrine?
R - Il denaro è sempre stato funzionale al potere. Ma non tutti i mafiosi sono ricchi, molti campicchiano, sono solo pochi coloro che riescono ad arricchirsi. È il rispetto e il riconoscimento sociale di cui godono nei piccoli paesi e nelle grandi città che li gratifica più di ogni ricchezza. Purtroppo, oggi ci sono sempre più persone che per restare al potere si affidano ai mafiosi, alla loro rete clientelare e ai loro metodi violenti e persuasivi.

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