Il dibattito politico su questo delicatissimo tema è passato purtroppo sotto silenzio. È quindi bene fare qualche considerazione con l’aiuto di un esperto.
di Carlo Mafera
Mario Fasani, esperto di diritto del lavoro e previdenziale e collaboratore della rivista della Fiba Cisl, nell’ultimo bimestrale ha brillantemente esposto il suo pensiero circa il pareggio del bilancio. Vale la pena estrapolare qualche passaggio per illuminare i lettori di Lpl, ma prima è giusto mettere in evidenza le idee che Giorgio La Pira manifestava circa 60 anni fa a Firenze come sindaco. La Pira era convinto da sempre che era compito di tutti coloro che avevano responsabilità pubbliche, dentro le istituzioni o alla testa di imprese, far quadrare i bilanci. Ma il vero pareggio, a parere suo - che prima di diventare professore ordinario di diritto romano all'università fiorentina ha studiato ragioneria nella Messina poverissima e pervasa di speranze che si stava rimettendo in piedi dopo la catastrofe sismica del 1908 - non può consistere nella sfilza di numeri che si allineano disciplinatamente sotto la regia della doppia partita. "A che serve un bilancio in pareggio se non è in pareggio la vita?" chiede a chi, autorevolmente, lo richiama a rispettare le regole contabili. Ma Giorgio La Pira è stato un maturo e scomodissimo testimone di una fede e di un impegno che sia le gerarchie ecclesiastiche sia le nomenclature della politica e dei partiti guardano col trascorrere del tempo con sempre maggiore sufficienza.
Mario Fasani nel suo articolo ha toccato i vari aspetti giuridici, costituzionali e dottrinali di questo delicato tema politico. Tralasciando i primi ci concentriamo sull’ultimo aspetto, forse il più consistente. “Il dogma del pareggio del bilancio ha sempre fatto parte delle teorie economiche che si rifanno alla teoria liberista di Adam Smith, sostenitore della finanza neutrale, secondo cui lo Stato deve solo garantire la libertà personale e la difesa del diritto di proprietà, lasciando all’iniziativa privata il compito di gestire gli altri campi della vita economica e sociale, sottoposti alla funzione equilibratrice del mercato. In pratica la finanza pubblica- ha sostenuto nel suo intervento Fasani - deve interferire quanto meno possibile con l’attività economica privata. Inoltre, Smith elaborò quattro principi per il sistema delle imposte: proporzionalità, determinazione del quantum, comodità del contribuente e minima spesa per la riscossione. In questo modo le imposte devono prelevare solo quanto serve per coprire le spese pubbliche essenziali. Il disavanzo è concepito come evento straordinario e deve essere pertanto coperto con entrate straordinarie”.
“Il sistema liberista – ha così continuato Mario Fasani - fu pesantemente criticato e demolito da J.M. Keynes: il mercato, lasciato a se stesso, tende ad assestarsi a livelli sempre più bassi di sottoccupazione. Consideriamo l’economia secondo il sistema di Walras, ossia con quattro grandi mercati: il mercato dei beni servizi prodotti, il mercato della moneta, il mercato del credito e il mercato del lavoro. Per la legge di Warlas se in un sistema ad n mercati ve ne sono n- 1 in equilibrio, allora anche l’n-esimo risulta essere in equilibrio. In questo caso l’ennesimo mercato a subire l’equilibrio degli altri è, ovviamente, il mercato del lavoro. Per Keynes, quindi, vi poteva essere equilibrio economico, ma a discapito dell’equilibrio del mercato del lavoro, quindi vi è disoccupazione anche se l’economia è in equilibrio. Come fare allora? Keynes, a questo punto, sostenne che il disavanzo rappresenta uno stimolo alla ripresa dell’occupazione e alla crescita del reddito. Il disavanzo assorbirebbe le risorse produttive che non sono occupate per insufficienza della domanda, garantendo la piena occupazione. La finanza pubblica contribuisce alla stabilizzazione del reddito nazionale e alla correzione delle fluttuazioni economiche. In Keynes, quindi, il disavanzo perde il carattere della straordinarietà tipico della teoria liberista. Chi legga il nuovo testo dell’art. 81 vedrà che lo Stato non potrà ricorrere al disavanzo per garantire la ripresa economica e la piena occupazione, ma neanche i servizi sociali necessari e tipici dello stato sociale che si è affermato dalla fine del XIX secolo e si è perfezionato durante tutto il secolo successivo (dunque: Keynes è “incostituzionale”?). Con il nuovo testo, ci saranno meno risorse da gestire, con l’effetto di ridurre assai lo spazio d’intervento correttivo dell’economia pubblica.
Adesso, esposte le due teorie, lasciamo ai lettori di Lpl e poi agli elettori italiani del prossimo marzo-aprile la scelta della teoria alla quale ispirarsi per risolvere i seri problemi italiani. Il mio personale giudizio è che Giorgio La Pira, se fosse vivo, direbbe a Monti: “Caro Mario, è vero che devi perseguire il pareggio del bilancio per ottemperare alle direttive europee, ma ci pensi a quanta gente si è già suicidata perché non arrivava a fine mese?”.
di Carlo MaferaMario Fasani, esperto di diritto del lavoro e previdenziale e collaboratore della rivista della Fiba Cisl, nell’ultimo bimestrale ha brillantemente esposto il suo pensiero circa il pareggio del bilancio. Vale la pena estrapolare qualche passaggio per illuminare i lettori di Lpl, ma prima è giusto mettere in evidenza le idee che Giorgio La Pira manifestava circa 60 anni fa a Firenze come sindaco. La Pira era convinto da sempre che era compito di tutti coloro che avevano responsabilità pubbliche, dentro le istituzioni o alla testa di imprese, far quadrare i bilanci. Ma il vero pareggio, a parere suo - che prima di diventare professore ordinario di diritto romano all'università fiorentina ha studiato ragioneria nella Messina poverissima e pervasa di speranze che si stava rimettendo in piedi dopo la catastrofe sismica del 1908 - non può consistere nella sfilza di numeri che si allineano disciplinatamente sotto la regia della doppia partita. "A che serve un bilancio in pareggio se non è in pareggio la vita?" chiede a chi, autorevolmente, lo richiama a rispettare le regole contabili. Ma Giorgio La Pira è stato un maturo e scomodissimo testimone di una fede e di un impegno che sia le gerarchie ecclesiastiche sia le nomenclature della politica e dei partiti guardano col trascorrere del tempo con sempre maggiore sufficienza.
Mario Fasani nel suo articolo ha toccato i vari aspetti giuridici, costituzionali e dottrinali di questo delicato tema politico. Tralasciando i primi ci concentriamo sull’ultimo aspetto, forse il più consistente. “Il dogma del pareggio del bilancio ha sempre fatto parte delle teorie economiche che si rifanno alla teoria liberista di Adam Smith, sostenitore della finanza neutrale, secondo cui lo Stato deve solo garantire la libertà personale e la difesa del diritto di proprietà, lasciando all’iniziativa privata il compito di gestire gli altri campi della vita economica e sociale, sottoposti alla funzione equilibratrice del mercato. In pratica la finanza pubblica- ha sostenuto nel suo intervento Fasani - deve interferire quanto meno possibile con l’attività economica privata. Inoltre, Smith elaborò quattro principi per il sistema delle imposte: proporzionalità, determinazione del quantum, comodità del contribuente e minima spesa per la riscossione. In questo modo le imposte devono prelevare solo quanto serve per coprire le spese pubbliche essenziali. Il disavanzo è concepito come evento straordinario e deve essere pertanto coperto con entrate straordinarie”.
“Il sistema liberista – ha così continuato Mario Fasani - fu pesantemente criticato e demolito da J.M. Keynes: il mercato, lasciato a se stesso, tende ad assestarsi a livelli sempre più bassi di sottoccupazione. Consideriamo l’economia secondo il sistema di Walras, ossia con quattro grandi mercati: il mercato dei beni servizi prodotti, il mercato della moneta, il mercato del credito e il mercato del lavoro. Per la legge di Warlas se in un sistema ad n mercati ve ne sono n- 1 in equilibrio, allora anche l’n-esimo risulta essere in equilibrio. In questo caso l’ennesimo mercato a subire l’equilibrio degli altri è, ovviamente, il mercato del lavoro. Per Keynes, quindi, vi poteva essere equilibrio economico, ma a discapito dell’equilibrio del mercato del lavoro, quindi vi è disoccupazione anche se l’economia è in equilibrio. Come fare allora? Keynes, a questo punto, sostenne che il disavanzo rappresenta uno stimolo alla ripresa dell’occupazione e alla crescita del reddito. Il disavanzo assorbirebbe le risorse produttive che non sono occupate per insufficienza della domanda, garantendo la piena occupazione. La finanza pubblica contribuisce alla stabilizzazione del reddito nazionale e alla correzione delle fluttuazioni economiche. In Keynes, quindi, il disavanzo perde il carattere della straordinarietà tipico della teoria liberista. Chi legga il nuovo testo dell’art. 81 vedrà che lo Stato non potrà ricorrere al disavanzo per garantire la ripresa economica e la piena occupazione, ma neanche i servizi sociali necessari e tipici dello stato sociale che si è affermato dalla fine del XIX secolo e si è perfezionato durante tutto il secolo successivo (dunque: Keynes è “incostituzionale”?). Con il nuovo testo, ci saranno meno risorse da gestire, con l’effetto di ridurre assai lo spazio d’intervento correttivo dell’economia pubblica.
Adesso, esposte le due teorie, lasciamo ai lettori di Lpl e poi agli elettori italiani del prossimo marzo-aprile la scelta della teoria alla quale ispirarsi per risolvere i seri problemi italiani. Il mio personale giudizio è che Giorgio La Pira, se fosse vivo, direbbe a Monti: “Caro Mario, è vero che devi perseguire il pareggio del bilancio per ottemperare alle direttive europee, ma ci pensi a quanta gente si è già suicidata perché non arrivava a fine mese?”.
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