Parlano tre immigrati che in Italia lavorano, pagano le tasse e hanno speso migliaia di euro per la tanto contestata sanatoria. Oggi sono ancora clandestini.
“Secondo te che accadrà?” mi chiede Sharef. “Non lo so, posso solo sperare che, chi lavora, otterrà il permesso di restare in Italia”. Sul volto del ragazzo un timido sorriso sottolinea la consapevolezza che lui, in quella categoria, la categoria di chi lavora, ci rientra eccome. “Sono nipote di un cittadino italiano – racconta – Mio zio è stato regolarizzato perché è venuto qui a lavorare. Dal 2008 lavoro ogni giorno, ho fatto richiesta per ottenere il permesso ma mi hanno dato solo un “foglio di via” che non mi garantisce la sicurezza nel vostro Paese. Ora faccio l'imbianchino e ho un contratto a tempo indeterminato, pago le tasse e i contributi ma, per lo Stato italiano, sono ancora clandestino”. Gli chiedo se anche lui ha perso dei soldi tentando la via della “sanatoria 2009”. “No, io di soldi ne ho spesi, e continuo a spenderne, già abbastanza in tasse; questo lo Stato deve riconoscerlo e rilasciarmi il permesso di soggiorno”.
Mohammed è arrivato in Italia quando aveva diciassette anni e, stando al suo racconto, ha sempre lavorato. In Egitto ha lasciato la famiglia per raggiungere gli altri tre fratelli che erano arrivati in Italia in cerca di una vita migliore. Nel luglio del 2009 ha versato al suo datore di lavoro, un ricco imprenditore sardo, quattromila dei settemila euro totali richiesti dall'uomo per certificare il suo lavoro come colf. “Mi alzo alle cinque e mezza del mattino ogni santo giorno per andare a lavorare – svela il ragazzo - Sono un carpentiere e da un anno e mezzo faccio la spola da Milano a Bergamo (dove è in esame la sua pratica ndr) per avere notizie sul mio futuro. La risposta è sempre la stessa: “Devi aspettare”. Ma ogni giorno che passo in Italia potrebbe essere quello in cui sarò rispedito in Libia”. Mohammed non ha gli occhi di un ventiquattrenne. Il suo sguardo è cupo e arrabbiato, come quello di chi sa di subire un'ingiustizia che, giorno dopo giorno, lo fa invecchiare. “Qualche mese fa è morto mio padre e non sono potuto tornare in Egitto per i suoi funerali”. Mohammed è uno di quelli che si chiede perché lo Stato ha incassato i suoi cinquecento euro per istruire la pratica tramite modello F24, invece di bloccare tutte le richieste fin da subito. “Mi dici se perderò questi soldi? - mi chiede – Ne ho già spesi tanti, sai? Qualche mese fa si è sposata mia sorella e ho pagato io per il suo matrimonio. Dall'Egitto mia madre mi chiama ogni giorno per sapere se, finalmente, mi hanno regolarizzato o corro ancora il rischio di essere arrestato e rimandato indietro”. Le preoccupazioni delle mamme verso i loro figli, sembra voler dire Mohammed, sono uguali in tutto il mondo: la certezza del lavoro, la salute e la lontananza dai problemi con la legge. Dell'estraneità a questi, il giovane si vanta, guardandomi fisso negli occhi e senza mai tradire la certezza dei suoi buoni propositi: “Noi egiziani qui in Italia lavoriamo. Stiamo costruendo da soli le infrastrutture che ospiteranno l'Expo. Non siamo come i rumeni che pensano solo a ubriacarsi dalla mattina alla sera e a delinquere. Noi siamo persone serie e meritiamo che l'Italia lo riconosca. I ladri veri non sono quelli che vengono da Egitto o Marocco, ma quelli che hanno dichiarato di avere decine di persone come colf e badanti, hanno preso i soldi, e sono scappati. Il limite imposto dalla legge è una colf e due badanti per ogni datore di lavoro; il vostro governo doveva controllare le domande prima di incassare i soldi e permettere che gente truffasse migliaia di quelli come me”.
“È vero”, aggiunge un altro Mohammed che, dopo aver ascoltato tutto il discorso, decide di sfogarsi con chi potrebbe raccontare la sua storia agli altri. Lui ha 38 anni e arriva dal Marocco, dove ha lasciato tre figli e una carriera da avvocato. Qui in Italia è imbianchino, e irregolare. Nonostante le otto pratiche avviate per conseguire un permesso di soggiorno, e le sveglie presto di mattina, non ha ancora ottenuto ciò che gli consenta di passare un normale controllo di polizia senza rischiare di essere rispedito a casa sua. “Tra il viaggio, l'Inps, le tasse e le varie pratiche ho speso tredicimila euro in un anno. I risparmi di una vita – mi dice gesticolando placidamente. L'ultima persona che poteva accertare che qui in Italia lavoro, è morta poco prima del colloquio in questura. Ho sbagliato io a venire qui. L'Italia, come il Portogallo, la Spagna e la Grecia, non è poi così tanto differente dai posti da dove veniamo noi”. Un'affermazione forte nella sua perentorietà. Perché mai un avvocato marocchino che viene in cerca di lavoro in Italia pensa che il nostro Paese, nel G20, nel G8, una delle prime potenze mondiali, non sia migliore del suo. Decido di chiederglielo e la risposta è, se possibile, ancora più sorprendente della stessa domanda. “Vedi – mi dice – il problema è che gli italiani, come popolo, non sono consapevoli delle leggi che li circondano. É come se viveste trasportati da una corrente alla quale sottostate, ma che gli altri decidono per voi senza che ne abbiate coscienza”.
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