martedì, novembre 09, 2010
La nostra corrispondente da Gerusalemme Raffaela Corrias ha intervistato per la Perfetta Letizia Hana Bendcowsky, Program Director del “Jerusalem Center for Jewish-Christian Relations”

D - Hana, oggi sei Program Director del Centro per le relazioni ebraico-cristiane di Gerusalemme e guida turistica che accompagna gli ebrei a visitare e conoscere i luoghi santi per il Cristianesimo. Qual è stato il percorso che ti ha portata a impegnarti per un dialogo tra la realtà ebraica e quella cristiana locale?

R - Sono nata in una famiglia ebrea ortodossa e sono stata educata in una scuola religiosa. Ricevere un’educazione di questo tipo significa studiare la legge ebraica e praticarla. In concreto vuol dire rispettare lo Shabbat, mangiare kosher e progredire nella conoscenza dei nostri testi sacri. Non sapevo nulla di Cristianesimo perché nelle nostre scuole, che siano religiose o meno, non rientra nelle materie di studio. Viaggiavo molto con la mia famiglia però, e visitavo le chiese dei luoghi in cui andavo. La prima volta in cui mi sono affacciata allo studio del Cristianesimo è stata quando mi sono iscritta all’università presso la facoltà di storia. Ho così scoperto una cultura, una storia, delle scritture molto interessanti. Ne fui talmente affascinata che modificai il mio piano di studi iniziale dedicandomi allo studio comparato delle religioni. Alla Hebrew University non esiste un apposito dipartimento di studi sul Cristianesimo: non potrebbe essere accettato. Per questo lo hanno chiamato “Religioni comparate”, anche se, in realtà, per le altre religioni esistono i relativi dipartimenti. Comunque sia, ho cominciato così ad approfondire la mia conoscenza del Cristianesimo, soprattutto dal punto di vista storico.
Un giorno, però, mi affaccio ad una finestra dell’università e realizzo che tutto quello che stavo imparando sui libri è accaduto laggiù, nella città vecchia di Gerusalemme, e non nel campus di Monte Scopus dove passavo le mie ore rintanata a studiare.


D - E cosa accadde?

R - Scesi nella città vecchia e completai i miei studi passandovi le mie giornate. L’ultimo anno i miei articoli si focalizzarono quindi sul Cristianesimo “moderno” e sulle attuali comunità cristiane presenti in Terra Santa. I miei professori facevano un po’ fatica a seguirmi perché non conoscevano queste realtà: erano preparati sul Cristianesimo dalle sue origini fino al V secolo; io parlavo di Cristianesimo del XIXesimo e XXesimo secolo. Nella città antica avevo la possibilità di entrare in contatto con le varie culture cristiane, con le diverse letterature, con le persone, con i problemi delle comunità, dei sacerdoti e dei laici. Studiai in modo particolare gli aspetti legati alla storia, all’antropologia, alla sociologia, tralasciando la teologia, troppo complicata per me. Pur essendo ebrea e vivendo in uno stato ebraico compresi l’importanza di conoscere il Cristianesimo per capire la cultura occidentale. Mi resi conto di quanto il Cristianesimo influenzi anche il mondo ebraico: la cultura ebraica ashkenazita occidentale, per esempio, è profondamente influenzata dal suo rapporto con il mondo cristiano, dal confronto e dai conflitti, dal fatto di vivere gli uni accanto agli altri. Realizzai, inoltre, quanto importante sia la presenza della minoranza cristiana in Terra Santa. È sì una minoranza, ma una minoranza che ha una sua forza, fatta di persone che hanno studiato, che desiderano la pace, che possono rappresentare un importante legame tra il mondo ebraico israeliano e quello occidentale. E non solo. Sono anche persone che possono mediare fra il mondo ebraico e quello musulmano perché hanno le loro radici sia nel mondo occidentale che in quello arabo. E’ una minoranza davvero molto importante per lo sviluppo di questo Stato.

D - A cosa ti portarono queste riflessioni?

R - A comprendere e cominciare la mia missione, quella di rendere consapevole il mondo ebraico israeliano dell’importanza di questa minoranza. Per via della situazione conflittuale che viviamo, infatti, non solo esistono minoranze, ma anche minoranze nelle minoranze che sono completamente ignorate. Bisogna invece sviluppare un’attenzione e una cura nei loro confronti. Dobbiamo aiutare queste realtà a rimanere in questa terra per contribuire alla sviluppo di questa società.

D - Quali sono le principali attività attraverso cui esprimi questa tua missione?

R - Accompagno gli ebrei, ad esempio, all’introduzione e alla conoscenza della cultura cristiana in modo che possano capire i libri che leggono, i film che vedono, l’arte nei musei: alle spalle di ogni scrittore, regista o artista, infatti, c’è la cultura cristiana. Noto che, quando spiego, le persone stesse cominciano a fare delle connessioni, a capire degli aspetti e rendersi conto di quanto li ignorassero prima. E’ fondamentale promuovere questo processo di comprensione soprattutto in un mondo che è sempre più multiculturale.
In parte sono anche impegnata a introdurre i cristiani locali - arabi quindi - alla cultura ebraica. I cristiani del posto hanno una conoscenza minima dell’ebraismo, nonostante gli ebrei siano i loro vicini di casa.
Guido, infine, gruppi che arrivano dall’estero per introdurli alla prospettiva degli ebrei israeliani sul mondo di oggi, su che cosa significhi fare dialogo in questa terra.
Il mio compito è quello di combattere l’ignoranza nelle sue varie forme. Ignorare significa procedere per stereotipi e avere pregiudizi. Sono dell’idea che più le persone potranno sviluppare la conoscenza dell’altro più le relazioni tra le comunità ne guadagneranno.

D - Il mondo ebraico israeliano come vede il Cristianesimo?

R - Per rispondere a questa domanda è importante capire la posizione che i cristiani prendono nel conflitto in atto e il fatto che, nel momento in cui non scelgono la nostra parte, siano visti come nemici. È inoltre necessario evidenziare le difficoltà che gli ebrei hanno rispetto a una serie di avvenimenti storici: le relazioni tra ebrei e cristiani sono state molto conflittuali in passato e nonostante sia facile enfatizzare i periodi in cui i rapporti sono stati particolarmente negativi, bisogna prendere atto che questa è stata la realtà: le persecuzioni, l’epoca delle crociate, l’espulsione degli ebrei dalla Spagna, la loro conversione forzata, la Shoah. Sono tutti aspetti fortemente presenti nelle nostre vite e nella nostra psicologia il cui ricordo permane nell’educazione delle nuove generazioni.
Sarebbe fondamentale comprendere che le cose oggi sono cambiate. La posizione della Chiesa è mutata, nello Stato di Israele siamo una maggioranza. Purtroppo, però, molti israeliani continuano a vivere in questa condizione mentale di vittime. Non vogliamo dimenticare, non vogliamo mettere alcune questioni da parte e “andare oltre”.
Esiste poi il problema teologico: per gli ebrei il Cristianesimo rappresenta un’idolatria per via della trinità e della rappresentazione artistica della divinità tramite le icone e le statue. L’idolatria per gli ebrei è qualcosa da cui tenersi bene alla larga e contro cui bisognerebbe combattere. Questo pone, evidentemente, un grosso problema nelle relazioni. Ci sono stati rabbini che hanno dato una lettura diversa ridimensionando l’accusa di idolatria, ma rimane comunque una visione negativa nei credenti e una difficoltà a intendere il Cristianesimo come una religione diversa dalla propria da rispettare.
Mettendo insieme il problema del conflitto, della storia e della teologia, si capisce quanto sia difficile promuovere un dialogo con i cristiani. Tuttavia voglio sottolineare che esiste un interesse per il Cristianesimo. Basta andare al Santo Sepolcro il sabato per capirlo: tanti ebrei sono lì per visitarlo. Io guido molti gruppi di persone disposte a pagare per conoscere un po’ di più il Cristianesimo. Detto questo, sento che mi devo impegnare per permettere una evoluzione da una semplice curiosità alla possibilità di promuovere uno sguardo di rispetto. E’ una sfida.

D - Ti sembra di raggiungere questo obiettivo?

R - Credo di sì. La religione non è una questione di logica, ma di sentimenti. Quando parlo del fatto di imparare a rispettare i sentimenti dell’altro vedo che qualcosa si accende. Magari non a tutti, dipende anche dal livello culturale delle persone. Questo è il cuore del mio lavoro: non tanto introdurre le persone alla storia della Chiesa e della religione, ma aiutarle a conoscere per rispettare il credo altrui.

D - Hai partecipato al Sinodo sul Medio Oriente che si è tenuto a Roma. Che tipo di esperienza hai avuto in quanto ebrea e in quanto donna.

R - È giusto soffermarsi su entrambi gli aspetti: ebrea e donna. Naturalmente i partecipanti al Sinodo erano tutti uomini. C’era solo qualche donna fra gli ospiti. Credo che anche gli esperti fossero tutti uomini. Personalmente sono stata invitata da padre Lombardi e ho collaborato con Radio Vaticana: volevano che ci fosse un sito in lingua ebraica in modo che gli israeliani potessero avere accesso agli aggiornamenti direttamente dalla fonte vaticana. Ho avuto la possibilità di ascoltare dibattiti molto interessanti sui problemi in Medio Oriente: di alcuni ero a conoscenza, di altri no. Questo mi ha aiutata a capire il livello di complessità della situazione e quante siano le sfumature.
Durante il Sinodo i problemi delle relazioni con il mondo musulmano sono stati al centro dei lavori; il conflitto israelo-palestinese è stato citato poche volte. Tuttavia, nel messaggio finale al popolo di Dio, un intero passaggio del documento è stato dedicato alla situazione nella nostra terra, al muro, all’occupazione, ai check-point, alle condizioni di ingiustizia. Poche righe sono state invece dedicate al conflitto in Libano, in Iraq e in Egitto. La situazione in quei luoghi è grave, ma non se ne può molto parlare per ragioni di sicurezza. Credo che gli israeliani non aspettassero altro: la stampa israeliana, infatti, era piena di articoli che mettevano in luce unicamente il passaggio critico nei confronti del nostro Stato. E’ un peccato perché la Chiesa sta cercando di costruire buone relazioni con il mondo ebraico, ma se la stampa israeliana, e credo anche altri media nel mondo, hanno messo in luce unicamente il paragrafo dedicato alla situazione in Terra Santa, ogni sforzo è stato compromesso. Tutte le discussioni sull’importanza del dialogo ebraico-cristiano non sono state minimamente menzionate dalla stampa israeliana. Non si è detto che il Vaticano ha aperto un sito in lingua ebraica perché gli ebrei potessero avere accesso a quello di cui si stava discutendo. Tutto questo non può che infiammare la situazione di conflitto in cui viviamo e che invece diciamo di voler superare. Desidero fortemente vivere una vita migliore qui in questa terra, ma ho proprio avvertito che i media non aiutano a creare un’atmosfera migliore. Il mio è un lavoro fatto di momenti di entusiasmo e di frustrazione. È un lungo cammino.


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