domenica, ottobre 17, 2010
Sono passati più di trent’anni da quell’orrore, che sempre più si configura come il genocidio di un’intera generazione; una storia di violenza brutale ma anche di isolamento internazionale e di diffusa omertà. Ancora oggi le madri di quei ragazzi desparecidos manifestano ogni giovedì nella Plaza de Mayo di Buenos Aires, a ricordarci che la ferita di quei sequestri di persona, di quei giovani figli strappati non si è rimarginata, e che l’arbitrio di quella violenza rimane una delle pagine più feroci della storia recente.

La carriera di Calamai in Sud America inizia in Cile, in una situazione anch’essa drammatica. L’11 settembre del 1973, aerei militari bombardano il palazzo presidenziale; il governo democraticamente eletto del socialista Salvador Allende, viene abbattuto da un colpo di Stato militare. L’Italia non riconosce il governo del generale Pinochet, ritira la rappresentanza diplomatica e richiama l’ambasciatore. Nelle sedi diplomatiche molte persone sono alla ricerca di un salvacondotto. Nell’ambasciata italiana 412 rifugiati, tra cui 50 bambini, chiedono asilo politico. Enrico Calamai, un giovane diplomatico di 27 anni, viene richiamato dall'Argentina dove si trova a Santiago del Cile per ricoprire la carica di viceconsole. Grazie al suo impegno si arriva a una soluzione di compromesso: tutti i rifugiati sarebbero partiti ma subito dopo, intorno all’ambasciata, si sarebbe alzato il muro di cinta, si sarebbe messo del filo spinato e i militari cileni avrebbero circondato l’edificio in modo da non permettere più l’ingresso. Calamai ricorda un clima di immane violenza da parte dei militari e una grande disperazione dei rifugiati.
“Nella tragedia cilena, che è la tragedia del mondo intero, sono loro ad avere ragione, anche se sono stati sconfitti dalla storia e fare il diplomatico mi concede il privilegio di aiutarli, restando in mezzo a loro ad affrontare i mille ostacoli che li allontanano dalla libertà.”
Il ricordo di un giovane trascinato via a forza da due militari e portato via mentre tenta di scavalcare il muro dell’ambasciata, insieme alla sensazione terribile della propria impotenza, spingono Calamai ad tornare in Argentina, quando anche in quel paese si verificano circostanze simili.

Il dramma argentino
Dopo 40 anni di governi militari e di regimi dittatoriali nel 1973 anche in Argentina avviene una svolta democratica. Alle elezioni democratiche del 1 marzo del 1973, il vincitore è il peronista Hector Campora; egli è il portavoce di un uomo molto amato in Argentina, che si trova in esilio da 18 anni, Juan Peròn. Dopo il trionfale ritorno in patria di Peròn, Campora si dimette per cedergli il posto, e il leader populista viene eletto presidente. Ma il paese è diviso; sono soprattutto i giovani, che sperano in un cambiamento radicale, ad essere delusi. Il giorno stesso dell’arrivo di Peròn all’aeroporto scoppia un conflitto violentissimo che si conclude con un massacro. Nei mesi successivi le posizioni si radicalizzano.
Enrico Calamai ricorda che la guerriglia c’era ma era un fenomeno minoritario, strumentalizzato a livello mediatico per preparare la repressione e per diffondere l’immagine di un paese sull’orlo del caos. In questo scenario, nel luglio del 1974, Peròn muore improvvisamente lasciando la presidenza alla figlia Isabelita. La repressione si accentua, prende sempre più piede la figura di López Rega, che crea uno stato di polizia, inaugurando la fase del terrorismo con la formazione dell'Alleanza Anticomunista Argentina (detta Triple A).
Le testimonianze di chi era giovane in quel momento parlano di una doppia vita, lo studio il lavoro la famiglia da un lato, in una parvenza di normalità, ma dall’altro il fantasma del terrore e della repressione. Delazione, sospetti, arresti improvvisi, l’Argentina sprofonda in una deriva cilena. Ma proprio dall’esperienza cilena i generali hanno imparato che la svolta autoritaria non deve avere una cassa di risonanza nell’opinione pubblica internazionale. Le immagini del palazzo della Moneda con Allende asserragliato e dei detenuti ammassati negli stadi hanno fatto il giro del mondo, provocando reazioni e indignazione. Un errore da non ripetere. E infatti il golpe argentino arriva di notte; è il 24 marzo del 1976. Il Parlamento è sciolto l’attività dei partiti sospesa, il colpo di Stato è guidato dal generale dell’esercito Jorge Videla.

La subdola pratica dei desaparecidos
Secondo Calamai, la strategia scelta dai militari argentini è molto abile; essi non fanno l’errore di Pinochet che ha invece puntato sull’esibizione dell’uso della forza repressiva che alla fine gli si è ritorta contro per la reazione di condanna suscitata in tutto il mondo. Il diplomatico racconta che, in quei primi giorni, apparentemente non successe nulla; il centro di Buenos Aires rimase uguale, non c’era un carrarmato, non c’erano posti di blocco né alcun segno di violenza, e che gli ci volle qualche giorno per rendersi conto che un golpe non poteva essere portato a termine senza atrocità repressive. La pratica dei desaparecidos è subdola e sottile. Le sparizioni di giovani impegnati in politica ma anche semplicemente vicini ad ambienti sospetti si susseguono in numero crescente. Nella notte, a prelevarli dalle loro case sotto gli occhi dei familiari o in mezzo alle strade, appaiono le tristemente note automobili Falcon verdi. Rigorosamente senza targa.
Lo sterminio era stato annunciato appena un anno prima dal generale Videla, che aveva dichiarato: Morirà il numero di persone necessario per conseguire la sicurezza del paese.

Calamai racconta che appena qualche settimana dopo il golpe iniziano ad arrivare i familiari delle persone scomparse. Figli o parenti di italiani chiedono aiuto. Calamai tenta di percorrere le vie legali ma si scontra con un muro di omertà. Non è facile trovare chi li aiuti. E anche quando qualcuno si presta a seguire le cause, come nel caso dell’avvocato Librandi, la presentazioni degli habeas corpus vengono respinte o ignorate. Cade dunque così anche l’ultimo baluardo democratico, il diritto dell’habeas corpus, storicamente lo strumento per la salvaguardia della libertà individuale contro l'azione arbitraria dello Stato.
La speranza è solo la fuga; tanti argentini di origine italiana cercano aiuto nel consolato, non hanno soldi, non hanno mezzi e, soprattutto, non hanno i documenti, ma la volontà di Calamai è ferma. Il flusso di persone che chiede di partire per l’Italia cresce sempre di più; il console generale non vuole più rischiare in prima persona e pretende che l’accoglienza venga bloccata ma Calamai non accetta di abbandonare al loro destino quegli uomini disperati e assume su di sé le responsabilità e i rischi. Alcuni li nasconde addirittura a casa sua, altri in stanza sotterranee del consolato, altri li mette in contatto con un sacerdote italiano; ad alcuni riesce a procurare dei salvacondotti per farli partire.
Calamai racconta di essersi trovato abbastanza isolato nel consolato, e di aver potuto contare solo sull’aiuto di pochi. Tra questi il sindacalista della CGIL Filippo Di Benedetto, che lo aiutò a cercare di far uscire dall’Argentina le notizie sulla repressione in atto. Anche questo un obiettivo importantissimo per la causa.

Il traffico dei neonati e i voli della morte
Un’intera generazione vive il dramma della tortura, degli omicidi, dell’arbitrio perpetrato in centinaia di prigioni sotterranee sparse in tutta la città di Buenos Aires. E le storie più agghiaccianti riguardano le giovani donne incinte, incarcerate e torturate ma tenute in vita fino alla nascita dei loro bambini, al fine di far rientrare questi ultimi nel «traffico» di figli di dissidenti (almeno 500, di cui solo 88 ritrovati finora) affidati a famiglie vicine al regime. Molti detenuti, poi, vengono sedati, bendati, e trasportati ancora vivi a bordo di aerei per poi essere spogliati e buttati da alta quota nel mare al largo del Rio de la Plata.
I dettagli dei cosiddetti “voli della morte” sono venuti alla luce solo anni dopo, e in particolare quando i protagonisti di quella abominevole pratica hanno confessato i loro crimini. Il primo di loro è stato l’ex militare Adolfo Scilingo, in un colloquio-intervista con il giornalista Horacio Verbitsky, pubblicato con l’evocativo titolo Il volo. (Scilingo sta scontando trenta anni di carcere in una prigione spagnola (limite legalmente applicabile in Spagna, sebbene sia stato condannato a 640 anni) dopo essere stato condannato nel 2005 per crimini contro l'umanità, colpevole per essere stato a bordo di un aereo della Prefettura Navale da cui furono gettati nell'Oceano Atlantico 30 dissidenti politici.)


L'indifferenza internazionale e i “mondiali del disonore”
Le notizie che trapelano non bastano a scuotere l’opinione pubblica internazionale, né a far muovere i governi. Negli anni dittatura 30.000 persone vengono uccise o fatte sparire. Sono perlopiù giovani tra i venti e i trent’anni. Il piano sistematico di sterminio degli avversari viene attuato in un clima di sostanziale indifferenza internazionale.
A tacere è l’America di Carter e la Russia di Breznev, ma anche l’Italia che ritiene a un certo punto che l’operato di Calamai sia a tal punto scomodo che è opportuno richiamarlo in Italia. (E’ lo stesso Calamai ad ammettere di non aver avuto, in seguito, una carriera molto brillante, di esser stato mandato in Nepal e poi in Afganistan e appena è stato possibile, in pensione.)
Neanche si può dire che l’Argentina fosse lontana dal mondo; mentre nelle 365 carceri sotterranee clandestine di Buenos Aires operano gli aguzzini, in superficie la città accoglie i capi stranieri per l’XI edizione dei mondiali di calcio. Ed è proprio nel 1978, mentre il regime si accreditava internazionalmente attraverso la manifestazione sportiva con tanto di vittoria del paese ospitante, che la repressione tocca il suo culmine e con essa il numero dei rapimenti e degli assassinii.

Il riconoscimento dell’Argentina democratica a Calamai
Enrico Calamai ha visto finalmente riconosciuta la sua attività salvifica dal presidente argentino Kirchner, che il 10 dicembre 2004 nell'Ambasciata della Repubblica Argentina in Italia, lo ha decorato con la Cruz dell’Orden del Libertador San Martin, per essersi battuto in difesa dei diritti umani durante gli anni della dittatura.
In quell’occasione l’ex diplomatico ha pronunciato un discorso di alta intensità emotiva, chiedendo di proseguire nell’opera di ricerca della verità di una vicenda che conserva ancora troppi lati oscuri.
La mostruosità di quello che accadde in Argentina sta in primo luogo nella metodologia usata, che fa fare un salto di qualità alla ferocia di stampo nazista, fino a spingerla oltre le categorie del pensabile, fino a renderla invisibile, irrappresentabile e quindi negabile. Tra i tanti segnali multicolori di un'immutata scenografia urbana, soltanto l'improvviso apparire delle Ford Falcon senza targa richiamava, come la pinna di un pescecane, una realtà sommersa di tortura e sterminio. Si sapeva e non si sapeva quello che accadeva di notte, qua e là nella sterminata periferia della capitale, ma certo i giornali e le televisioni non ne parlavano. Era tutto talmente elusivo, che chi non era direttamente colpito poteva negare o minimizzare o dire di non sapere per continuare a fare la propria vita. Era un terrore reso ancora più invasivo della vita individuale e collettiva, dalla stessa indecifrabilità del suo operare. Il fatto che siano stati in tanti a negare va valutato con grande attenzione: dimostra la portata devastante del trauma cui è stato sottoposto il popolo argentino.

Una coscienza nuova
Oggi la storia dei desaparecidos, grazie a testimonianze, ricostruzioni, confessioni e pubblicazioni (come ad esempio i libri di Masimo Carlotto). Nel 1999 esce il film Garage Olimpo dell’italo argentino Marci Bechis, una storia ambientata in una delle tante prigioni dove i giovani oppositori del regime venivano torturati, uccisi, o trasportati sugli aerei della morte. Nel 2003, per Editori Riuniti, esce il libro Niente asilo politico, in cui Enrico Calamai racconta la sua drammatica esperienza in Argentina.
I parenti dei desaparecidos, le madri ma anche i figli strappati da neonati alle proprie famiglie, si sono organizzati in associazioni che continuano a lavorare per la ricerca della verità di quella tragedia. Il simbolo delle brutalità disumane compiute dai militari golpisti, il più tristemente famoso di questi centri di detenzione, la Escuela de Mecánica de la Armada a Buenos Aires è oggi un museo per la memoria dei crimini della dittatura, e per la promozione e la difesa dei diritti umani.
Nel 2004, l'inaugurazione del complesso mussale è accompagnata dal discorso di uno dei tanti figli di desaparecidos nati all'ESMA, Emiliano Hueravillo:

Mi chiamo Emiliano Hueravillo, sono nato qui alla ESMA. Qui mia madre, Mirta Mónica Alonso, mi diede alla luce. Come lei, in tutti i centri di detenzione della zona sud di Buenos Aires, centinaia di coraggiose donne diedero alla luce i loro bambini in mezzo ai medici torturatori. A Tutti i nostri fratelli e sorelle che sono nati qui, e che non sono ancora ritornati alla propria famiglia come ho potuto fare io: voglio che sappiano che li stiamo cercando, li stiamo aspettando, vogliamo raccontargli che le loro madri li amavano, che i loro padri li amavano, e che appartennero alla parte migliore di una generazione che si mise in gioco completamente per consegnarci un paese migliore.

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