martedì, marzo 30, 2010
di Frate Pietro, missionario in Marocco

˝Ma cos’è questa crisi….˝ cantava una vecchia canzone. E siamo sempre in crisi, bisogna farci il callo. Crisi economica, crisi vocazionale, crisi di nervi... La crisi, si sa, porta con sé un senso di precarietà, di insicurezza, che non è forse ció che istintivamente cerchiamo, ma non è neanche necessariamente un male. Sorella Precarietà è un po’ la compagna di strada di questa Chiesa locale in Marocco, caratterizzata da una grande mobilità e quindi da un cambiamento continuo di persone, sia preti che fedeli. Si calcola che il 20% dei fedeli cambia ogni anno, il che significa che ogni 5 anni tutti i fedeli sono diversi da prima!

La cosa è particolarmente evidente a Meknes dove constato che, a parte il piccolo gregge degli “anziani” (francesi) che si assottiglia sempre più, i giovani africani che avevo conosciuto 5 anni fa, al mio arrivo, sono partiti tutti e sono stati rimpiazzati da atri. Stessa cosa per i Frati della nostra comunità: a parte il mitico frà Joël (60 anni in Marocco, 50 di sacerdozio, 18 a Meknes....!) ogni anno ho avuto fratelli diversi con cui vivere: nazionalità diverse, mentalità, esperienze, formazione diverse.... diversissime! E poi non sai mai con chi sarai l’anno successivo... un buon sistema per non cristallizzarsi nelle abitudini acquisite. La nostra microscopica e precaria comunità cristiana vive tuttavia il carisma dell’internazionalità, che ci aiuta a relativizzare i rispettivi modi di vedere la Chiesa e allo stesso tempo ci mostra il senso vero della “Cattolicità”.

C’è un’aria di famiglia che supplisce alla carenza di “strutture”, una facilità di comunicazione che rende meno necessarie riunioni e ruoli molto precisi. La vita della comunità si concentra molto nel finesettimana, soprattutto la domenica, perchè è l’unico giorno in cui gli studenti universitari africani non hanno corsi.

La celebrazione domenicale è molto allegra: modestamente, abbiamo una corale che fa faville! Canti in francese, in malgascio, in lingala e altre lingue, con ritmi molto vari e voci davvero belle fanno vivere la Messa come un autentico piacere di lodare e cantare l’unico Dio e Signore. Spesso, presiedendo l’Eucaristia parrocchiale, chiudo gli occhi per qualche istante e, mentre assaporo il canto, vedo la moltitudine dei popoli che forma l’unica Chiesa, riuniti simbolicamente ma realmente, intorno alla piccola mensa del pane e del vino. E, dietro i volti dei nostri fedeli, vedo anche la presenza dei tanti fratelli e sorelle dell’Islam per cui Cristo si è donato e per cui noi offriamo il suo sacrificio. Chiesa dell’incontro, che diventa esperienza di grazia soprattutto nelle grandi feste, dove una presenza significativa di amici Musulmani in chiesa rende la nostra preghiera ancora più universale. Ancora di più in occasione di un funerale di un membro della nostra comunità cristiana: in quei momenti la presenza degli amici Marocchini che lo avevano conosciuto e amato diventa massiccia e la consapevolezza di pregare lo stesso Dio ancora più forte. Come dice il Corano: da Lui veniamo e a Lui facciamo ritorno.

Presenza precaria dunque, Chiesa di “pellegrini e forestieri” in questa terra: ma non è forse la condizione più vera del cristiano? Non siamo forse sempre in cammino verso la nostra vera “Patria”...? Allora ecco come sto vivendo l’anno sacerdotale: il dono di un ministero che non dà nessun potere se non quello di servire e di intercedere in nome della Chiesa di Cristo, quella visibile (piccola e provvisoria) come quella invisibile, Sposa senza rughe dell’unico Sposo.

Il Signore vi dia pace,
Fratepietro

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