giovedì, dicembre 10, 2009
Oggi, 10 dicembre 2009, consegna del premio Nobel per la Pace al presidente degli Stati Uniti

di Ottavio G. Fogliata

Quando l’8 ottobre il comitato norvegese del Nobel per la Pace fece il nome di Barack Obama, chi non ne fu contento rimase certamente allibito. «Non so se lo merito» commentò il Presidente degli Stati Uniti. Oggi, 10 Dicembre, la città di Oslo s’appresta a consegnargli il premio Nobel.
L’opinione pubblica ha non poche difficoltà a comprendere il perché del premio Nobel. D’altra parte la gente si è fatta sfuggire ciò che il comitato norvegese ha attentamente analizzato: in un ristretto lasso di tempo, Obama ha bombardato l’America di riforme, ed in soli dieci mesi è riuscito ad attivare delle politiche davvero innovative.
Tutti ci siamo chiesti chi mai sia Obama. La sua vita è di gran lunga un modello a cui ispirarsi; è un forte simbolo per eliminare qualsiasi strascico di razzismo. Ma non credo vi sia nulla di speciale nel suo passato fino a quando, nel 1990 circa, inizia ad occuparsi attivamente di politica. È nel 1992, appunto, che aiuta Clinton in una delle campagne elettorali più difficili. Un impegno, il suo, che porta all’ex presidente circa centomila voti in più. Da quel momento la sua ascesa politica è innegabile, ma è una salita di quelle difficili e sudate, nonchè lente e sofferte. Si trasferisce a Washington nel 2005, con l’immagine leggendaria di un uomo venuto dal nulla e pronto a cambiare il mondo, e nella sua prima candidatura come presidente degli Stati Uniti riesce a sbaragliare il più temibile degli avversari, il repubblicano John McCain.
Ci sono molti che inevitabilmente provano a razionalizzare il suo successo, come se ci fosse una specie di “ricetta della nonna” attraverso cui Barack abbia potuto costruirsi una vita migliore. Ma è lui soltanto il suo ingrediente straordinario. Il 20 gennaio, quando si è insediato alla Casa Bianca, in molti pensavano che nei gironi successivi avrebbe deluso tutti. Ed io me lo immaginavo mentre entrava alla White House: prima di chiudersi la porta alle spalle, si voltava e ci sorrideva con quel ghigno tipico del malvagio di turno.
Invece, nei mesi successivi tutti abbiamo dovuto registrare più successi che sconfitte. In primis, tutti i suoi viaggi all’estero finalizzati al raggiungimento di nuovi accordi per il disarmo nucleare. Forse è questo uno dei perchè del premio Nobel: per esempio, durante un suo viaggio diplomatico in Russia si è incontrato con il presidente Dimitri Medvedev con il quale ha riaperto lo «Start», ovvero quel trattato che dopo la guerra fredda avrebbe dovuto attivare immediatamente procedimenti per il disarmo. Cosa che, naturalmente, non avvenne. Adesso invece Obama ci rende consci di un sogno possibile: l’utopia della Pace. La sua politica è rivoluzionaria perché basata principalmente sull’abbattimento di tutti quei pregiudizi che l’America ha sempre avuto nei confronti del Medio Oriente (e viceversa). Subito dopo l’insiedamento, nel famoso ufficio ovale, durante le sue prime telefonate, ha parlato con quattro leader: il premier israeliano, il presidente egiziano, il sovrano giordano ed il primo ministro palestinese. Dà l’idea di non perder tempo, di voler a tutti i costi mantenere le sue promesse elettorali: ciò non dispiace a nessun americano. E nemmeno a noi.
Obama non è solo il ponte per il futuro e per la pace. Lui probabilmente sarà il successo dell’America, e conseguentemente per l’intero globo. In questi giorni per esempio si parla moltissimo della riforma sanitaria da lui ideata e ci sono diverse possibilità che essa venga approvata. In futuro, grazie ad essa, sarà possibile allargare il diritto sanitario a chiunque, mentre oggi negli Stati Uniti l’assistenza sanitaria è destinata solo a chi è in possesso di un certo tipo d’assicurazione.
Dunque un futuro d’oro per l’America e per il mondo. Forse... Infatti, qualche settimana fa, l’America di Obama ha nuovamente scosso la testa davanti alla proposta dell’abolizione delle mine antiuomo: vorrebbe che siano prima gli altri stati a disarmarsi dalle mine. In casi come questi, è evidente come gli Stati Uniti siano come un vecchio gigante che sa d’esser invecchiato: non gli va assolutamente che qualcuno per un qualsiasi motivo lo prevarichi. Ai piedi del gigante però vi è un piccolo uomo di colore con un eterno sorriso sul viso; guida costantemente i passi dell’America, ed è lì da appena dieci mesi. Molti sono i cinici che non aspettano altro che una sua mossa falsa per poterlo criticare. Pochi invece coloro che credono nella forza di volontà dell’ometto. Lui ha in mente di rinnovare il gigante, fargli la barba, mettergli un vestito nuovo e pettinarlo. Di fargli conoscere il mondo e di fargli fare tanti amici. Ma come si fa a convicere un gigante testardo?
Ad Oslo l’hanno capito. Il Nobel per la Pace andrà ad Obama, perché in poco tempo un piccolo uomo ha fatto tanto. È un Nobel per i suoi incredibili sforzi diplomatici; certo è un Nobel, forse il primo nella storia, che inevitabilmente vive nel dubbio del futuro. I giorni a venire hanno solo due possibilità: ricordarci che ci siamo infatuati dell’ennesimo flop o gettare le basi per un futuro migliore. Io, permettetemi, sogno la seconda.


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