del nostro collaboratore Carlo Mafera
“Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto” (Gen. 2,1-3). Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale: che l'uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore. Questa verità la troviamo nel libro della Genesi, dove l’opera stessa della creazione è presentata nella forma di un “lavoro” compiuto da Dio durante i “sei giorni”, per riposare nel settimo. Questa descrizione è, in un certo senso il primo «Vangelo del lavoro». Essa dimostra, infatti, in che cosa consista la sua dignità: insegna che l'uomo lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in sé - egli solo - il singolare elemento della somiglianza con Lui. L'uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo. San Francesco nella sua Regola ricorda ai suoi discepoli: “I fratelli reputino il lavoro come dono (non obbligo e sopportazione, quasi che l’ottimo sarebbe non lavorare; è dono perché in esso c’è una grazia che guarisce e redime) come partecipazione alla creazione (lavoro è anche creatività, miglioramento del mondo, costruzione delle città, arte…), redenzione (il lavoro contribuisce al miglioramento di se stessi grazie all’applicazione, allo spirito di sacrificio, all’impegno metodico e costante…), servizio della comunità umana (infatti grazie al lavoro si provvede ai bisogni della famiglia, al miglioramento delle condizioni generali della vita, si impiegano le risorse per vincere la fame e il sottosviluppo…)”.A questo punto ci si chiede cosa succede ai giorni nostri. Ricerche americane e italiane hanno rilevato che, da dieci anni a questa parte, tra quanti lavorano c'è la tendenza a mettere al primo posto, tra le richieste, non più il denaro o i benefit di varia natura, ma il tempo libero, cioè il riposo, quasi si fossero resi conto che se è vero che per vivere occorre lavorare, non è più vita quella totalmente assorbita dal lavoro. Si avverte quindi una conflittualità tra il tempo che si dedica al lavoro e quello che si dedica al riposo. Un conflitto che si crea è quello della estraneità del lavoro rispetto alla vita della famiglia. Mentre nel passato la fatica fisica del lavoro poteva favorire un piacevole rientro in famiglia, oggi questa è certamente diminuita, ma sono aumentati stanchezza, nervosismi, inquietudini che derivano dalla fatica mentale del lavoro; elementi tutti che spesso vanno a disturbare il desiderio di dialogo, a vantaggio invece di voglia di svago personale, evasione.
“In pratica si sono stancati di affidare i propri figli alle baby-sitter, i propri vecchi alle badanti, la cura della casa alle colf, le feste dei bambini alle agenzie che si incaricano, perché non hanno più tempo, e quindi sono costretti a delegare al mercato dei servizi la propria vita relazionale, quando non addirittura la propria vita intima, di cui si sentono deprivati dagli orari di lavoro o dall'impiego di entrambi i componenti la coppia genitoriale, perché altrimenti, senza due stipendi, non si arriva alla fine del mese.” Così afferma lo psicanalista Umberto Galimberti. Forse la ricerca spasmodica di una mitica indipendenza femminile si è rivelata poi un boomerang per un’effettiva qualità della vita familiare. E qualche volta si sono operate delle scelte, da parte delle donne, non certo sagge ma opportunistiche. Di qui la ricerca degli asili non in base ai criteri educativi, ma esclusivamente in base al tempo in cui intrattengono i bambini, l'affidamento degli adolescenti alle scuole, preferibilmente quelle private, dove i risultati si crede siano più garantiti, i disagi giovanili affidati agli psicologi perché i tempi di comunicazione nell'ambito familiare, quando non sono ridotti, sono del tutto assenti. Il lavoro quindi , può creare dei problemi nella vita della coppia e nella vita di famiglia; la famiglia è il primo luogo dove si impara a fare i conti con il lavoro distribuendo a tutti i componenti gli impegni del vivere quotidiano, le piccola attività di gestione domestica affinché ciascuno impari che il lavoro non è solo fatica, ma responsabilità, condivisione e anche soddisfazione per sé e per quanto si è realizzato. In particolare la sofferenza e la criticità più evidente sta nella relazione emotiva, sentimentale e sessuale tra i coniugi che, soffrendo per la mancanza di tempo, diventa svogliata, disinteressata e non compensata dai regali di compleanno, dall'offerta di cene annoiate al ristorante, o da una settimana di vacanze in paesi esotici comprata in un'agenzia di viaggio. Alla tentazione della estraneità bisogna contrapporre la logica della condivisione. Occorre cioè sforzarsi di mantenere il dialogo fra le persone e comunicare in qualche modo le proprie esperienze, anche se in apparenza molto diverse. Da parte di chi lavora fuori casa, ma anche di chi tutto il giorno si impegna dentro casa, come pure tra i due che tornano da lavori diversi, si richiede la disponibilità e un costante sforzo in questa direzione, per evitare di erigere barriere fra fuori e dentro. Ci sia l’ascolto; i due creino, nonostante l’inevitabile stanchezza e il tempo sempre avaro, le occasioni e il desiderio di ascoltarsi anche nelle problematiche del lavoro esterno ed interno. Si ricordino le attenzioni utili per arrivare alla buona comunicazione; non c’è solo da far ragionamenti e prendere decisioni di efficienza, ma spesso c’è da comunicarsi gli stati d’animo, i dubbi, i desideri, le paure, le ansie generate dal lavoro.
Tutto ciò per scongiurare lo stakanovismo nel lavoro per procurarsi denaro con cui realizzare la propria indipendenza. Questa canalizzazione di tutte le proprie energie nel lavoro (per non affrontare la fatica relazionale) sta svelando il rovescio della sua medaglia, che è poi la perdita della propria vita emotiva, per cui tutto diventa indifferente e nulla più stimolante. “Lo spostamento dell'auto-realizzazione nel mondo del lavoro con conseguente de-realizzazione nel mondo della famiglia e più in generale degli affetti ha fatto crollare anche l'ideologia del "tempo-qualità", che poi non è altro che il modo con cui, ingannandoci, si chiama il tempo che si dedica agli affetti quando è "poco", quando non si ha tempo di ascoltare i figli se non per i risultati scolastici, quando non si ha tempo di vedere sulla faccia del nostro compagno o compagna di vita i segni del disagio, quando non si ha neppure il tempo di prendere contatto con quello sconosciuto che, a furia di lavorare, ciascuno diventa per se stesso” – così dice l’insigne filosofo e psicanalista Umberto Galimberti in un recente articolo su Repubblica. Eppure ci sarebbero dei rimedi come quello di valorizzare al livello sociale e culturale il lavoro casalingo : infatti questo è senza dubbio da considerare vero lavoro. Talvolta questo viene sottovalutato dalla società; talvolta non è compreso e valorizzato da marito (o moglie) che lavora fuori; e qualche volta non viene valutato nemmeno da chi fa il lavoro casalingo. O ancora si potrebbero portare avanti la politica sociale della famiglia almeno in termini di denaro (riduzione dell'Ici sulla casa, bonus per i nuovi nati), se non riusciamo a parlare in termini di tempo. È chiaro che il mondo emotivo, affettivo, relazionale, sempre più sacrificato, non può essere compensato col denaro con cui affidare al mercato tutta la cura che sottraiamo ai figli, agli anziani, alle relazioni reciproche, familiari e di vicinato, cura della propria vita emotiva, ma almeno è un primo passo in avanti.
“Eppure – continua Galimberti - qui una scelta si impone, se vogliamo evitare quell'alienazione, quella lontananza di sé da sé, che già Marx a suo tempo denunciava, con la sola differenza che al suo tempo avveniva per costrizione e oggi per autocostrizione, perché ognuno tende a consegnare la propria identità alla propria disponibilità economica e quel riconoscimento che non viene più dallo sguardo di un uomo, di una donna, di un figlio, ma dall'avanzamento in carriera, che conferisce prestigio in una società fatta più di relazioni formali che affettive.” Quindi nel prossimo futuro dobbiamo tendere a domandare alle amministrazioni presso le quali lavoriamo più tempo. Infatti così conclude il professor Umberto Galimberti “Chiedere tempo libero e non più solo denaro e benefit è un modo per recuperare l'umano e non soccombere a quell'atrofia emotiva in cui uno non solo non è più in grado di riconoscere l'altro, ma alla fine neppure se stesso. Le nuove generazioni sembra l'abbiamo intuito. Se riusciranno a rivendicare tempo libero saranno la più significativa delle rivoluzioni, perché riconsegneranno una speranza all'uomo nell'età della tecnica che, col suo sguardo guidato solo dalla più fredda razionalità, fatica a distinguere un uomo da una macchina.”
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