mercoledì, dicembre 01, 2021
L’esame del parere del Comitato etico (vedi) – contrariamente a quanto si è ripetuto in questi giorni sul caso del quarantatreenne marchigiano tatraplegico – rivela un quadro poco rassicurante circa l’esistenza di tutti i requisiti indicati dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 242/2019, per l’esecuzione in Italia della richiesta di suicidio medicalmente assistito. (parere del comitato etico)

di Bartolo Salone

È di questi giorni la notizia che Mario (nome di fantasia), di quarantatré anni e tetraplegico da circa dieci, ha diffidato nuovamente, per il tramite del suo legale, Filomena Gallo, la Asur Marche (Azienda Sanitaria Unica Regionale), perché inadempiente in merito alle dovute verifiche sul farmaco letale.  Lo comunica l'Associazione Luca Coscioni. Questo è, infatti, l'ultimo passaggio da effettuare, si spiega nel comunicato dello scorso 26 novembre, prima di poter accedere legalmente alla morte medicalmente assistita, secondo l'iter stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale sul famoso caso Cappato/Antoniani (dj Fabo)
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La diffida, si legge ancora nel comunicato, arriva a seguito del parere del Comitato etico dei giorni scorsi, che aveva confermato la sussistenza dei quattro requisiti previsti dalla Corte, ma allo stesso tempo non aveva potuto esprimersi in merito alla “metodica, il farmaco e le modalità di esecuzione”, in assenza della Relazione di verifica effettuata dai medici nominati dall'azienda sanitaria regionale delle Marche. Per comprendere appieno la vicenda in esame e il contesto medico-legale nel quale si inscrive il parere reso dal Comitato etico, occorre fare un accenno alla decisione della Corte costituzionale. 

Con la sentenza n. 242/2019, la Corte costituzionale, dopo avere chiarito che “Dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire” e che “A prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore del 1930, la ratio dell’art. 580 cod. pen. [il quale punisce l’istigazione o aiuto al suicidio, n.d.r.] può essere agevolmente scorta alla luce del vigente quadro costituzionale, nella tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio … anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”, ha individuato una circoscritta area di non conformità della fattispecie criminosa, e quindi di non punibilità, nelle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento in vita artificiale non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare. 


Il requisito sub c) assume carattere di assoluta centralità nel definire l’area di non punibilità dell’aiuto al
suicidio – che per resto rimane vietato e penalmente sanzionato – in quanto, spiega la Corte, in tali casi “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.”. 

Non quindi qualsiasi sofferenza fisica o psicologica insita nello stato di malattia o di disabilità che il paziente avverta come intollerabile giustifica l’aiuto di un terzo al suicidio, ma solo quelle di una persona tenuta in vita artificialmente che intenda rinunciare ai trattamenti di sostegno vitale. Ai menzionati quattro requisiti di carattere sostanziale, la Corte ne affianca due di tipo squisitamente procedurale, vale a dire: 

1) La concreta possibilità della persona malata di sottoporsi alla terapia del dolore e alle cure palliative, compresa la sedazione palliativa profonda continua; 
2) La verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve avvenire nell’ambito di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente (al quale spetta esprimere un giudizio sull’utilizzo dei farmaci e, in generale, sulle modalità di esecuzione, “le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità al paziente e da evitare al medesimo sofferenze”). 
La Corte ha inoltre cura di precisare, quanto al tema dell’obiezione di coscienza, che “la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità del suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”. 

La sentenza n. 242/2019 non delinea, dunque, in capo ai medici alcun obbligo di prestare assistenza al suicidio, pur in presenza di tutti i requisiti in precedenza elencati, né configura in capo alle strutture sanitarie pubbliche alcun obbligo di tipo prestazionale in tal senso, essendo il ruolo della struttura pubblica limitato alla verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio in vista dell’esclusione della responsabilità penale del personale sanitario che presti, spontaneamente, assistenza al suicidio del paziente alle eccezionali condizioni sopra descritte. Ebbene, così riassunto il quadro normativo e giurisprudenziale nel quale si inserisce la problematica del suicidio medicalmente assistito, qualche considerazione sul caso del signor Mario può farsi alla luce del parere reso dal Comitato etico regionale delle Marche. Se per un verso il Comitato etico ha riscontrato favorevolmente la capacità di intendere e di volere del paziente, unitamente al carattere irreversibile della malattia e alla proposta al paziente stesso della somministrazione di una terapia antidolorifica integrativa che costui ha espressamente rifiutato manifestando soddisfazione per il livello di assistenza terapeutica in atto, per altro verso ha sottolineato la difficoltà nel verificare dall’esterno il requisito dell’intollerabilità della sofferenza fisica e psichica, non senza annotare “l’indisponibilità del soggetto ad accedere a una terapia antidolorifica integrativa” (indisponibilità che, per inciso, non si pone del tutto in sintonia con la riferita insopportabilità quantomeno delle sofferenze fisiche connesse allo stato di grave disabilità). 

Dai rilievi compiuti dal Comitato etico risulta inoltre chiaro che il paziente non è attualmente dipendente da trattamenti di sostegno vitale attivo per il mantenimento in vita (come si considerano generalmente la ventilazione assistita e l’alimentazione e idratazione artificiali). Infatti, il paziente, spiega il Comitato etico, “ha impiantato un pacemaker, è fornito di un catetere vescicale a permanenza ed è sottoposto a manovre di evacuazione manuale” che non svolgono un ruolo attivo, come nel caso della ventilazione, idratazione e alimentazione artificiali, ma un ruolo sussidiario per le funzioni fisiologiche e in caso di aritmia cardiaca. La sostanziale dequotazione del requisito del mantenimento in vita attraverso trattamenti di sostegno vitale nel parere del Comitato etico (resa evidente dal richiamo a talune posizioni critiche del Comitato Nazionale per la Bioetica sul carattere potenzialmente discriminatorio del requisito stesso, in quanto determinerebbe “una selezione tra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti, pur affetti da patologia cronica irreversibile e con sofferenza fisica e psicologica ritenuta insopportabile, non lo so sono o non lo sono ancora, ma ricevono comunque una forma di assistenza continuativa”) non rende in verità giustizia della essenzialità e indefettibilità del requisito stesso, che nell’impianto argomentativo della sentenza n. 242/2019 riveste invece un ruolo centrale. 

Alla luce di quanto sopra, e al di là delle riserve di carattere procedurale pure espresse dal Comitato etico quanto a natura, dose e modalità di somministrazione del farmaco da impiegare per realizzare l’esito letale, appare assai dubbio che l’aiuto al suicidio da prestare al paziente nel caso in esame soddisfi tutti i requisiti di liceità di ordine sostanziale indicati dalla Corte costituzionale. Al contrario, come si è visto, la mancata dipendenza da trattamenti di sostegno vitale in senso tecnico porrebbe la vicenda in esame al di fuori dell’area di non punibilità ritagliata dalla Corte nell’ambito della fattispecie criminosa di cui all’art. 580 c.p., con conseguente concreto pericolo di incriminazione dei sanitari che prestassero assistenza al suicidio nel caso considerato. Rimangono sullo sfondo – e certo non risolte né dalla pronuncia della Corte costituzionale né dal Comitato etico marchigiano – le delicate questioni morali concernenti l’ammissibilità, sul piano dell’etica professionale del medico, di interventi sanitari diretti a cagionare intenzionalmente la morte del paziente (o a fornire al paziente strumenti di morte), invece che a curare e accompagnare la persona nel decorso della malattia: questioni che interpellano la coscienza medica dei sanitari e legittimano, se del caso, il ricorso all’obiezione di coscienza, quand’anche – come si è detto – fossero presenti tutti i requisiti di liceità penale dell’intervento.



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