lunedì, giugno 10, 2019
Vittorio Russo, capitano di lungo corso, è giornalista, viaggiatore e scrittore di saggi e racconti. Ha pubblicato ricerche e studi sulle origini delle religioni e del cristianesimo tra cui II Gesù storico (Editrice Fiorentino, 1978), vin¬citore del premio Montecatini 1980 per la saggistica. È autore di antologie narrative e romanzi come La decima musa(M. D’Auria Editore, 2005), Quando Dio scende in terra (Sandro Teti Editore, 2011) e La porta degli esili sogni (Cairo Editore, 2017). Dai suoi viaggi sono nati libri che intrecciano geografica, mito e storia, tra questi India mistica e misteriosa (2008), Sulle orme di Alessandro Magno (2009) e L’India nel cuore (2012) premio letterario Albori 2012 e finalista al premio Rea 2013.

intervista a cura di Virgilio Violo

FlipNews - Le sue ultime fatiche sono “Transiberiana” el’Uzbekistan di Alessandro Magno, ambedue edite dalla “Sandro Teti”. Il primo è il reportage ricco di foto e illustrazioni di un viaggio lungo 12 mila chilometri che valica i confini geografici e culturali che separano Occidente e Orien¬te. Lo scrittore ci fa strada tra le sconfinate terre russe e la civiltà mongolica e ci por¬ta con lui nei vagoni della ferrovia più lunga del mondo, l’infrastruttura faraonica che fu costruita anche grazie al contributo delle maestranze friulane, fatto noto più in Russia che in Italia e sul quale si sofferma e rievocato in queste pagine. Luoghi e popoli così distanti non sono mai stati tanto vicini. Un libro dal linguaggio evoca¬tivo. Un libro carico di immagini poetiche. Un libro alla scoperta dell’esotico e più autentico Oriente. “L’Uzbekistan di Alessandro Magno” invece è un viaggio alla ricerca dei luoghi del tempo e della memoria dove la storia di Alessandro sfuma nel mito. Emerge da queste pagine il personaggio storico del conquistatore nella sua prospettiva umana più attendibile. L’eroe invincibile immortalato nei marmi di Lisippo cede il passo all’ubriacone omicida, al borioso, al superstizioso e cinico sterminatore di popoli. Ma con i difetti dell’uomo si profila anche il volto più autentico di un nuovo Ulisse che vuole conoscere per possedere, sognatore tenace, unificatore di genti.

D - Il motivo che l’ha spinto a visitare terre così lontane?

R - Il viaggio, nella mia interpretazione, s’identifica con ricerca, con scoperta motivata da curiosità. Questa curiosità, poi, è normalmente generata da letture, studi, approfondimenti e da tutto il corollario di ricerca di fonti in grado di appagare il bisogno di conoscenza. Viaggiare quindi è la conseguenza di uno stimolo potente. Il mio viaggio in Uzbekistan e Tagikistan si colloca in questa prospettiva, non meno degli altri, d’altronde. Letture annose di scritti su Alessandro Magno e poi analisi dei testi canonici, come mi piace definire le biografie sul Macedone degli autori più antichi, hanno finito per creare una molla propulsiva che ha reso irriducibile il bisogno di andare, di recarmi nei luoghi sperduti che egli percorse con le sue armate e trovarvi tracce che confortassero l’idea del personaggio, ormai già formata nel mio immaginario. Scontato però, che la scoperta della storia sotto la pelle della geografia, trovasse riscontro nella figura creata dalle letture e un po’ anche dalla fantasia.
Quando ad animare un desiderio è la voglia forte di vedere, di scoprire, di svelare, nessun orizzonte è lontano, non ti scoraggiano prevedibili difficoltà di attraversamento di terre sconosciute, senza collegamenti di strade, senza mete definite. Vai, perché scoprire significa diventare creatori di cultura, significa sottrarre gli eventi alla dimenticanza del tempo e dare loro una continuità di vita che accenderà la curiosità di quelli che verranno dopo.
Il viaggio, per quanto riguarda me, si snoda in una prospettiva bidimensionale: storica la prima, la seconda geografica. Ed ecco pure come da viaggiatore, con questi obiettivi, mi scopro storico secondo l’etimo più coerente di histor, che è colui che viaggia, che vede e racconta. Il mio modello ideale in quest’ottica è Erodoto, il padre della storia. È lui il viaggiatore per antonomasia, il cronista che osserva e riporta, il narratore di fatti ed eventi che danno senso al tempo. E il tempo diventa storia quando è denso di avvenimenti che sottratti all’oblio sono consegnati alla memoria perché degni di essere ricordati.

D - Cosa vuole trasmettere al lettore? sensazioni, cultura, curiosità, legami che ha il nostro paese con le terre visitate, o cos’altro?

R - Gli orizzonti entro i quali mi piace racchiudere quello che scrivo sono sfumati. Mutuando le parole dall’archeologo Andrea Carandini, io ritengo che il viaggiatore-scrittore, mosso dagli obiettivi di cui ho detto prima, sia acceso da una febbre, quella della conoscenza, che si identifica col bisogno di coinvolgere nella scoperta i suoi lettori. La scoperta è pure coincidente con il disvelamento prezioso di qualcosa di nascosto. Svelare significa togliere il velo del mistero, rimuovere la polvere che appanna l’oggetto della scoperta, portare alla luce ciò che non è noto. Mi piace identificare il percorso del viaggiatore-cercatore con quello del sole: hanno entrambi come scopo quello di scacciare il buio, il primo quello della notte, il secondo quello dell’ignoranza. C’è un termine greco, alétheia, che traduce il senso del disvelamento. Alétheiacorrisponde a verità, ossia a ciò che non è nascosto, a ciò che viene svelato, appunto. Forte è il bisogno di leggere lo stupore nel volto di chi partecipa a questo disvelamento. E proprio questo stupore mi piace trasmettere al lettore coinvolgendolo con immagini e riflessioni, sollecitando emozioni e, naturalmente, sperimentando forme di scrittura capaci di produrre questi risultati. Scrivere diventa perciò bisogno di de-scrivere. Lo scrittore si fa de-scrittore di ciò che osserva per catturare la curiosità e l’interesse del lettore. Chi viaggia per raccontare deve fare dei propri sensi gli strumenti di una percezione totale attraverso cui consentire a chi legge di vedere, sentire, toccare, annusare e di esaltarlo delle sue stesse emozioni, di fargli vivere il suo stesso panico, le sue ansie, le sue armonie, il suo stesso entusiasmo, nel senso etimologico più autentico di benessere e possessione divina. Questa possibilità di congiungere i sensi in una comune contaminazione percettiva, cioè di renderli capaci di “sentire insieme”, si chiama sinestesia. In questo libro su Alessandro e l’Uzbekistan, come in tanti altri, ho cercato di rendere quello che ho percepito proprio con sinestesia.

D - È stato difficile dialogare con le popolazioni visitate?

R - Il viaggio nell’ottica che le ho detto presenta infinite incognite che alla partenza possono solo essere messe in conto, ma non immaginate. Guai poi se non fosse così perché il senso stesso del viaggio è dato dalle sue incognite. Una fra quelle immaginabili è la difficoltà rappresentata dalla lingua e dal dialogo con genti diverse. Ho scoperto però che il viaggiatore motivato dalle mie curiosità non ha bisogno che di conoscenze linguistiche epidermiche, specialmente per viaggi di “lungo corso” di questo genere. Anche perché le lingue, in longitudini geografiche così remote, sono strumenti spesso insufficienti. Fatti salvi i termini per le esigenze essenziali, occorre più che un vocabolario di tante lingue quello del buon senso, occorre un franco sorriso e il ponte levatoio della disponibilità abbassato. Quando si riesce a coniugare queste condizioni capisci, come ho scritto da qualche parte, che le distanze fra gli umani sono più nelle geografie che li separano che non nel comune sentire. Viaggiare alla luce di queste premesse ti fa capace di interpretare e tradurre quasi per istinto, perché in fondo poi le parole, quando sono tradotte, hanno significati epidermici. Le lingue che parliamo quando sono diverse da quella materna, sono lingue sostanzialmente tradotte, perciò tradite. Ogni parola appartiene alla cultura che l’ha generata e quella cultura si porta dietro. Tradotte, le parole hanno significati oscillanti e non sempre riflettono il principio razionale secondo cui esprimono una cosa e solo quella. Ha spiegato bene questo concetto Umberto Galimberti.

D - Cosa l’ha colpito maggiormente nei suoi viaggi?

R - La diversità. La diversità, che d’altronde è quello che io normalmente cerco nel viaggio. Viaggiare significa, come ho detto prima, scoprire, svelare e, soprattutto, essere stupito da quello che scopro. La cosa più sorprendente è scoprire quello che meno ti attendi di trovare. Il termine serendipità dà bene l’idea di quello che intendo dire. Serendipità vuol dire fare scoperte impreviste, trovare per caso cose e svelare conoscenze di eventi ignorati ricchi di fascino, anche più delle cose e degli eventi di cui hai conoscenza. Il viaggiatore, come io lo intendo, non distingue le diversità perché delle diversità del mondo nutre la propria voglia di conoscenza. Il sipario del viaggiatore si apre non sulla scena, che è il luogo della rappresentazione di quello che si conosce, ma sulla platea che è il luogo delle mutevolezze cromatiche, delle emozioni che si leggono nei volti del pubblico, negli sguardi che esprimono attesa, curiosità, meraviglia. La diversità è la ricchezza stessa del viaggio. Quale molla spinge l’uomo a muoversi, ad andare: l’avventura, il bisogno di essere stupiti, l’urgenza di avvicinarsi all’ignoto, la curiosità? Questo, certamente, e altro ancora. Ecco, credo sia questa la ricchezza autentica del viaggiare. Una vita senza curiosità, ha scritto Platone, non è degna di essere vissuta e chi non riesce a stupirsi vive come un albero che muore dove è nato. Perché in fondo noi esistiamo rapportandoci agli altri, esistiamo perché gli altri ci riconoscono, esistiamo grazie a una relazione e nella misura in cui ci sappiamo raccontare. La nostra identità è un prodotto sociale non un dato anagrafico o biologico. Viaggiare è una chiave che svela la nostra identità.

D - Una curiosità per tutte, cosa l’ha colpito di più?

R - In questo viaggio nell’Asia Centrale sulle orme di Alessandro Magno, le curiosità sono le mille piccole tessere del mosaico quotidiano dell’avventura che formano eventi indimenticabili per colore e calore. Una curiosità, in particolare, m’è rimasta impressa e ne ho parlato nel mio libro: quella dei dentini da latte. Un tempo in una regione dell’Uzbekistan, il Surkhan Darya, erano conservati, con altri ricordi di famiglia, i dentini da latte dei propri figli, in castoni di metallo, che venivano poi portati al collo dai genitori. Secondo la mia amica e guida in Uzbekistan, Halima, questa consuetudine risale a un peculiare ricordo dell’infanzia di Alessandro Magno. Secondo lei, il piccolo Efestione, avrebbe donato ad Alessandro, suo compagno di giochi e di studio, un suo dentino da latte quale testimonianza di duraturo legame. Alessandro, a sua volta, avrebbe risposto a questa prova di devozione cavandosi un dente e offrendolo al coetaneo confermandogli così un pari impegno di amicizia e affetto. Da quel giorno, entrambi, avrebbero portato al collo, sospeso a una catenina, in un castone d’oro, ciascuno il dentino dell’altro, pegno di un patto devoto e silenzioso. Fu da allora forse che sarebbero stati uniti, come noto, da un legame forte e definitivo ben oltre i valori che l’accezione del termine amicizia comporta.

Diverse popolazioni della Sogdiana e della Battriana (attuali Uzbekistan e Afganistan), educate alla maniera greca, avrebbero adottato quest’abitudine. Essa sarebbe diventata presto una consolidata tradizione e sarebbe sopravvissuta fino ai tempi nostri. Per amore di precisione devo aggiungere che non ho trovato alcun riferimento al dettaglio dei castoni e dei dentini da latte nelle più antiche biografie del Macedone. Mi ha tuttavia colpito per la sua trasognata delicatezza quest’immagine tratteggiata dalla mia amica uzbeka. Per quanto scaturita da tradizioni popolari leggendarie, essa riflette appieno il carattere di Alessandro e la morbosa devozione di Efestione. Per quello che ne so, questo dettaglio così singolare e assolutamente coincidente nel suo svolgimento con quello della tradizione uzbeka, appartiene solo alla felice inventiva di Valerio Massimo Manfredi che l’ha riportato nel suo Aléxandros. Quando gliene parlai si sorprese non poco, egli per primo, di questa curiosa concomitanza e per aver involontariamente accreditato e “storicizzato” con la sua narrazione una leggenda locale che non conosceva.

D – Ci spostiamo sull’altro suo libro, Transiberiana. Le sarebbe risultato monotono il viaggio in Transiberiana senza scendere mai dal treno?

R – Non saprei dire. È vero che specificamente, per ciò che attiene il viaggio transiberiano, il treno ne è l’assoluto protagonista. Il treno non è solo il veicolo che ti trasferisce da un angolo all’altro del Pianeta ma diventa il luogo della conoscenza, il luogo degli incontri, il luogo di un altro disvelamento: quello di te a un altro te stesso, sostanzialmente sconosciuto. È nel treno che incontri le espressioni di tante culture ed etnie siberiane, è nel treno che schiudi veramente le porte su un mondo misterioso e inesplorato, su una geografia sterminata di popoli e ti piace naufragare in una babele di lingue, fra sguardi curiosi e interrogativi di persone che si aprono alla tua esplorazione e che hanno le tue stesse curiosità di conoscenza. Il treno, insomma, si fa motore di civiltà. È straordinaria soprattutto l’esperienza del contatto col volto ingenuo e sorridente di bambini con occhi dal taglio obliquo perduti nella plica mongolica. In essi squilla la luce dell’innocenza comune a tutti i bambini della Terra che si mescola con quella della curiosità propria dell’età. Il viaggio transiberiano più autentico è perciò quello che fai nel treno, prima di quello che fai col treno: un viaggio la cui destinazione sfuma in orizzonti confusi tra cielo e terra, oltre i finestrini rigati da strie di pioggia che corrono via cancellate dal vento della velocità. È un percorso odeporico che fai, come ho detto, principalmente da un te stesso a un altro te. È un te talvolta sconosciuto, che mette a nudo la propria interiorità in queste coordinate geografiche lontane che hanno per protagonisti l’azzurro di fiumi smisurati come oceani e il bianco delle cortecce delle betulle nei silenzi sterminati che dominano e diventano lingua madre. No, affrontato con lo spirito giusto, non ravviso nulla di monotono in un’esperienza in Transiberiana. Nel corso di giornate intere di viaggio, nel susseguirsi di centinaia di stazioni dai colori squillanti, non ho percepito né monotonia, né malinconia, né nostalgia. Riesci per lunghe ore a dialogare proprio col silenzio che si sovrappone addirittura allo sferragliare della ruote su binari ghiacciati o roventi e al loro stridio tagliente al passaggio su ponti senza fine. Lo puoi ascoltare in silenzio, perché parla, dà rilievo alle cose come una sonorità capovolta. Su un treno della Transiberiana lo spazio sembra fatto espressamente per i cercatori di silenzio perché si fa apprezzare, perché ti lascia in compagnia di te stesso, senza porti domande e senza importi risposte.

D - Ha mai sentito parlare degli Hunza, che pare siano anch’essi discendenti dei soldati di Alessandro Magno il quale si spinse fino alle pendici dell’Himalaya?

R - Sì, però non ne ho parlato nel mio libro perché l’avrei affollato di leggende e racconti fantastici. Gli Hunza, dal nome della valle e del fiume lungo cui vivono in alcune migliaia, sono noti anche con altre denominazioni fra cui quella di Burusci. Sono famosi per la loro singolare longevità e altre inconsuete caratteristiche antropologiche. Quella degli Hunza è un’etnia che vive nella cuspide confinaria, molto contesa, fra Pakistan, India e Cina, ai piedi dell’Himalaya. Si distinguono, oltre che per la longevità, per una lingua che non ha legami con nessuna di quelle parlate nella regione e perché (senza molto fondamento, in verità) ritengono di discendere dalla gente al seguito delle falangi di Alessandro Magno. Si sa che i soldati del Macedone, non più in grado di combattere, venivano lasciati a presidiare roccaforti e città di confine, costruite a decine lungo i percorsi della conquista.
A dare corpo a questa leggenda della discendenza macedone degli Hunza ha contribuito non poco il viaggio, di non molto tempo fa, di una loro autorevole delegazione in Macedonia accolta con grandi onori dalle autorità di questo Paese.
Non dissimili tradizioni di antica discendenza dagli opliti di Alessandro riguardano altre etnie della regione, come quella delle poche migliaia di Kafiri, per esempio, che si distinguono per la carnagione e gli occhi chiari e vivono nel Kafiristan, al confine settentrionale tra Pakistan e Afganistan. Kafir equivale in arabo a non credente e i Kafiri sono così conosciuti perché, rispetto a tutte le altre popolazioni di quell’area geografica, non si sono mai convertiti all’Islam.

Vittorio Russo (a sin.)

Ho trovato curiosa la storia di un gruppo di questi Kafiri che, intorno all’anno 1000, al seguito degli Omayyadi, giunsero in Spagna prima e poi in Italia Meridionale distinguendosi come abili navigatori, mercanti e importanti armatori dei tempi più recenti. Il loro cognome è oggi Cafiero che riflette quello antico di Kafir, probabile progenie dei guerrieri di Alessandro. È difficile stabilire linee di discendenza dai macedoni di Alessandro, a distanza di 23 secoli dall’epoca della conquista di queste regioni. Va considerato che durante questa fase della guerra di conquista asiatica (siamo intorno al 320 a.C.) l’esercito del Macedone era composto forse solo da una minoranza di soldati macedoni e greci. In larga parte era formata dalle nuove leve dei popoli conquistati, Persiani, Sogdiani, Battriani, Ircani, Drangiani etc. A presidio delle terre conquistate venivano lasciate persone non più idonee alle armi, verosimilmente genti delle stesse regioni conquistate, talvolta mercenari, più spesso disertori, insomma i peggiori, che non erano normalmente i Macedoni e i Greci molto meglio educati al mestiere delle armi. Le terre dove vivono queste rare popolazioni che vantano la discendenza macedone sono ubicate in aree geografiche montagnose e talvolta perfino inaccessibili, decisamente fuori dal percorso seguito dall’armata di Alessandro nel suo spostamento dalla Sogdiana (Uzbekistan) verso l’India.

D - Cosa pensano del nostro paese, in genere, le persone che ha avuto modo di incontrare?

R - L’Italia è molto apprezzata anche se nota più spesso per luoghi comuni e sentito dire. Fanno la gloria del nostro Paese famosi giocatori del calcio, qualche cantante alla moda non meno dei prodotti tipici della nostra cucina e dell’abbigliamento. A tessere le lodi patrie sono persone di limitata cultura che finiscono per mettere sullo stesso piano Leonardo e Al Capone. Gratifica molto invece sentir parlare con competenza e quasi venerazione dell’Italia da chi ha una più approfondita conoscenza della cultura occidentale.
Nell’ O’zbekiston Davlat San’at Muzeyi, il Museo di Belle Arti di Tashkent, ha suscitato tutta la mia meraviglia una sala ricchissima di opere d’arte dedicata in prevalenza ad artisti italiani del Rinascimento e dell’Ottocento. Mai mi sarei aspettato di trovare in quel luogo qualcosa del genere. Fra originali e copie di grandi maestri, mi ha colpito in special modo una sensualissima statua di Frine, incantevole capolavoro giovanile del milanese Francesco Barzaghi in un marmo levigato come avorio che si fa quasi carne viva ed esprime in uno slancio di puro dinamismo un’incredibile vitalità statica.

D - Dopo tanto viaggiare si sente più cittadino del mondo o italiano?

R - Beh, da tempo sono cittadino del mondo; amo tuttavia orgogliosamente e cocciutamente le mie radici italiane ben abbarbicate nel Sud del Paese. Sarebbe un’anomalia se non fosse così. Vi sono sottili capillari di sangue vivo e irriducibile che mi legano come cordoni ombelicali ai luoghi dove sono cresciuto, dove ho imparato a leggere negli orizzonti fra cielo e mare non linee di confine ma traguardi da raggiungere. E quando questo è avvenuto, quando ho smarginato per la prima volta oltre le righe della lettura abituale, allora mi sono ritrovato nelle glosse e nelle pagine a cercare ciò che avrei voluto esplorare per possederlo per farlo mio, perché si possiede veramente solo quello che si conosce. Ecco, in questo senso mi sento cittadino del mondo e a mio agio quando sono appagato e vinto da quello che mi stupisce. Capisco, forse per istinto, che il giorno in cui non mi sorprenderò più di nulla sarà pure quello in cui la vita diventerà un percorso piatto di abitudine e quotidianità senza stimoli di interesse: un vita amorfa. Perché, come ho detto prima, solo una vita fitta di curiosità è veramente degna di essere vissuta. In questo credo fermamente.
Grazie






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