martedì, settembre 20, 2016
Intervista. L’illustratrice e cantante palestinese parla della bambina “simbolo della libertà del mio popolo”, del suo villaggio distrutto dalle milizie sioniste nel nord d’Israele nel 1948 e della sua esperienza di rifugiata. “Al momento vivo in Libano, ma un giorno, quando torneremo in Palestina, porteremo il campo con noi”

 di Cecilia D’Abrosca

Nena News - Amal, oltre ad essere l’autrice della bambina simbolo della voglia di libertà del popolo palestinese, come dire l’alter ego di Handala, è una cantante. Sabato e domenica si è esibita con i Jussur Project (concerto già avvenuto), gruppo composto da musicisti di formazione musicale ed etnia diversa, all’Auditorium del Seraphicum a Roma e a Salerno nella rassegna Femminile palestinese. Amal è una ragazza palestinese che vive a Beirut. Cresciuta nel campo di rifugiati in Libano, dove ha iniziato a disegnare e a cantare da piccola, ci racconta di sè e dell’idea legata a Meiroun.

Questa volta, il simbolo della libertà palestinese è femminile, è una bambina. In che occasione ha pensato per la prima volta a Meiroun? E perchè?

Nel 2004, circa dodici anni fa, ho aperto il mio blog e l’ho chiamato “Meiroun”. Ho deciso questo nome perchè è quello del mio villaggio nel Nord della Palestina. Era un modo per ricordarlo e farlo conoscere perchè è talmente piccolo che nessuno avrebbe avuto modo di sapere della sua esistenza. Ora la mia famiglia vive “dappertutto” ma non in Palestina. Il mio voleva essere un omaggio alla mia terra, alla Palestina. Sin dall’inizio, avendo una forte passione per il disegno, cominciai a esporre i miei lavori nel blog, quella bambina all’inizio non aveva un nome proprio, e così, quasi in automatico, decisi che si sarebbe chiamata Meiroun.

Qual è il significato che porta con sè Meiroun? Cosa vuole comunicare la sua immagine?

Meiroun ha il significato della libertà inseguita dal mio popolo, per la quale lotta ogni giorno, anche a prezzo di molta violenza e morte.

Ci spieghi, in quanto donna, in cosa la rappresenta Meiroun e perchè potrebbe e dovrebbe rappresentare le donne del mondo arabo?

Meiroun è una diretta rappresentazione di me stessa: delle mie preoccupazioni, ispirazioni, sogni, ma anche timori, paure, ma poichè la sua figura è quella di una silhouette, non è possibile cogliere delle caratteristiche fisiche definite, dunque lei può essere chiunque. È una figura femminile che rappresenta tutte le donne arabe; può essere egiziana, libanese, palestinese, o algerina. Sono felice di una cosa, anche, so di molte bambine che oggi si chiamano Meiroun, di recente uno dei miei amici ha scelto per sua figlia questo nome.

Lei attualmente vive a Beirut. Potrebbe restituirci un’ immagine della donna araba contemporanea.

La realtà di Beirut è differente da quella esistente negli altri paesi arabi. Le donne sono relativamente libere e possono autogestirsi. Invece, ad esempio, in Egitto le donne sono molto esposte alla violenza domestica e a quella in strada. Ma la questione della violenza verso le donne è internazionale oggi e soprattutto ha natura storica. Da sempre, credo, le donne siano state oggetto di violenza e sopraffazione. Purtroppo alcuni valori sono fissati dalle società e si tramandano senza interrogarsi sulla loro validità e ragionevolezza. Io sono cresciuta, per mia fortuna, da un lato, in un posto dove non ho mai sentito il peso della discriminazione legato al mio essere donna, più che altro ho avvertito una qualche forma di discriminazione legata al mio status, quello di donna palestinese rifugiata, nata e cresciuta in un campo.

Ci parli brevemente della sua esperienza di vita nel campo. Cosa le ha insegnato il contatto quotidiano con gli altri e la condivisione di uno stesso disagio.

Vorrei fare alcune premesse, a scopo informativo. Non tutti i palestinesi, in Libano, vivono in un campo. Le condizioni di vita nel campo sono disastrose, difficili, bisogna essere dotati di uno spirito di adattamento molto forte. Infine, la complessità della nostra situazione è collegata strettamente al tema dei diritti civili, alla mancanza di una loro disciplina giuridica e alla gestione del tema da parte del governo libanese. Detto questo, considero, per la mia esperienza, un campo di rifugiati come un qualsiasi altro posto. Quando sei piccola, crescere in un palazzo o in un campo non fa alcuna differenza, nemmeno la percepisci. Perchè ogni posto ti appare come un altro. Così come, mi risulta difficile spiegare e capire, cosa ho ricevuto in più dalla mia crescita in un campo di rifugiati e cosa ho dato in cambio agli altri. Posso solo dire che il campo è il posto in cui mi sento a casa, a dispetto delle notizie diffuse dai media e dalla durezza della vita quotidiana. È il luogo dove vive la mia gente e dove sento l’accento palestinese e questo mi basta per capire che sono a casa.

Cosa mi manca? Rispondo con un esempio. Ho amici a Beirut che vivono in città ma sono nati in alcuni villaggi del Sud ed ogni fine settimana tornano lì. Ecco! A me manca il “lusso”di poter ritornare nel mio villaggio in Palestina, a Meiroun. Per me il villaggio è il campo! È il mio “piccolo sostituto” della Palestina. È ciò che la sostituisce. Io dico, “It’s my little Palestine”. È il luogo che racchiude la mia infanzia, il mio amore per le piante, trasmesso da mia nonna, è il posto dove in assoluto ho iniziato a disegnare e a cantare. Ma della mia vita nel campo ricordo un anno spiacevole e drammatico, il 1997, quando l’esercito israeliano bombardò il campo e mia madre fu ferita.

Le ferite si portano ovunque, anche se il campo poi lo lasci e vai a vivere altrove. Sono consapevole di appartenere al campo, ed esso appartiene a me. Al momento vivo in Libano ma un giorno, quando torneremo in Palestina, come dice la mia gente, “porteremo il campo con noi”.

Per seguire i lavori di Amal Ziad Kawash, si veda il suo blog (clicca qui)


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