venerdì, luglio 08, 2016
A dispetto di quanto racconta certa politica sommaria e grossolana, l'Italia continua nella sua decrescita demografica. Il fenomeno migratorio, se ponderato, contribuisce in termini economici e sociali a evitare il collasso. Si spiega il perché.

di Dario Cataldo

Che in Italia non si facciano più figli ormai è sotto gli occhi di tutti. Il senso ultimo della vita sembra essere il "godersi la vita", pensare alla carriera o al piacere effimero. Poi, quando anche quello finisce, in modo del tutto egoistico, si va alla ricerca di quel bisogno di maternità o paternità mai del tutto accantonato. La scusa, "mi sento ancora troppo figlio per essere padre" crolla nel dimenticatoio della memoria per essere sostituita dall'irrefrenabile impulso di genitorialità
.

All'improvviso, la carriera e la godereccia visione della vita creano lo spazio all'egoismo. Qualsiasi ritrovato della scienza è utile per conseguire lo scopo. Nonostante le lancette dell'orologio biologico hanno spesso di scandire il tempo, la corsa al figlio è in pieno fermento. Nel frattempo ci accorgiamo che il Paese è in declino demografico e che la "cultura del figlio unico" non è più sufficiente per sopperire al crepuscolo.

Ecco perché bisogna pensare agli immigrati come ad un'ancora di salvezza, come a una risorsa che se utilizzata nel modo opportuno potrebbe rilanciare l'economia del Belpaese. Mettendo da parte i nazionalismi estremi e le ghettizzazioni, gli immigrati che lavorano e pagano regolarmente le tasse, sono egualmente meritevoli, al pari dei locali, di vivere una vita frutto "dell'incontro" e della solidale cooperazione.

Il pensiero corre alle minoranze provenienti dell'Asia, che con la loro cultura del lavoro sostengono un vacillante mercato che oscilla tra il serio e il faceto. Tra i settori nei quali incidono maggiormente, come non citare il manifatturiero o la ristorazione - vedi i cinesi; i servizi domestici o agli anziani - vedi i filippini. Dai numeri contenuti nel XXV Rapporto Immigrazione 2015, rilasciato in questi giorni dalla Caritas e da Migrantes, le due nazioni si posizionano rispettivamente al 4° e 6° posto tra le presenti in Italia. Rumeni, albanesi e marocchini sul podio dei cittadini stranieri che in percentuale sono tra i più presenti nella Penisola.

L'apporto in termini di natalità è rilevante se considerato in rapporto all'annualità passata, in cui si è registrato un calo della popolazione pari a 150 mila unità, nonostante i migranti. Ci si rende conto che il dato sarebbe nettamente superiore senza il contributo dei "nuovi cittadini".

Ecco perché i migranti sono una preziosa risorsa, da integrare nel mercato del lavoro - si pensi a quanto sono sfruttati in ambito salariale rispetto alla mole di lavoro richiesta. Nel rispetto della cultura del Paese ospitante, la nuova sfida è includere piuttosto che escludere. Si pensi al sistema scolastico. Secondo i dati del XXV Rapporto, nell'anno scolastico 2014/2015, gli alunni stranieri nelle scuole italiane sono 814.187 ovvero il 9,2% del totale, con un aumento dell'1,4% rispetto all'anno 2013/2014.

Nascondere l'evidenza è improduttivo e in controtendenza rispetto ad altri Paesi del quadro internazionale. I luoghi "dell'incontro" della transculturalità e del dialogo sono il valore aggiunto per porre le basi della società del domani, per la quale la crescita demografica e la certezza di un reddito siano dati per scontato. Nel rispetto delle parti occorre precisare che la storia dello Stivale non è solo quella di migrazioni forzate bensì di persone che lavorano in strutture che "oggi come in passato dedicano professionalità e responsabilità al dialogo costante e arricchente con la diversità", nel continuo tentativo di creare ponti di scambio.



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