giovedì, aprile 28, 2016
L'imprenditore romano Alberto Luzzi ha trasformato la sua vita per aiutare il Nepal messo in ginocchio dal terremoto del 25 aprile del 2015. E' così che è nata l'associazione Jay Nepal (“Risorgi Nepal”) che ha tra i suoi principali obiettivi quello di trasformare Bodgaun, uno dei posti più sfortunati sulla terra, in un villaggio modello, dove poter vivere con dignità e gioia. 

di Simona Valesi  

Italiachecambia - Per dar più senso alla sua vita, è passato dalle pietre preziose ai massi delle macerie. Sembra una strofa uscita da una canzone di De André, nello stile della sua filosofia umanitaria e politicamente corretta, e invece è la storia vera di Alberto Luzzi, imprenditore romano nel settore gioielli, appassionato di trekking di altura e arrampicata che ha trasformato la sua vita per aiutare il Nepal devastato dal terremoto. Ricorreva infatti ieri, 25 aprile, il primo anniversario del cataclisma che ha colpito 1500 chilometri di territorio tra Nepal, India, Cina, Bangladesh e Pakistan, distrutto 870mila case e seminato oltre 10,000 vittime.

Alberto, per questo giorno di memoria, invece di piegarsi alla commemorazione di eventi tragici ormai pietrificati dall’immutabilità del passato, ha radunato volontari da tutto il mondo con l’obiettivo di dare uno slancio alle potenzialità del futuro. Vogliono ricostruire Bodgaun, una cittadina di 2300 anime, di cui 700 bambini, rasa al suolo dal sisma, popolata da una delle caste più povere del Nepal e abbandonata a se stessa. “Questo progetto è un sogno – ci dice Alberto – vogliamo fare di Bodgaun, che è uno dei posti più sfortunati sulla terra, un villaggio modello, dove poter vivere con dignità e gioia, dove i ragazzi abbiano le stesse opportunità che hanno i nostri figli in occidente”.

Alle sei del mattino erano in 200 a partire da Patan, il quartier generale di Jay Nepal, che nella lingua locale significa Risorgi Nepal, l’associazione fondata per poter portare risorse e soccorsi a un popolo devastato fisicamente e psicologicamente. Duecento cuori ardenti e impavidi che, nonostante il freddo, si svegliano battendo all’unisono verso un unico scopo: ricostruire Bodgaun, far risorgere il Nepal.

“Credo che il modo migliore per commemorare la tragedia del terremoto sia di lavorare per un nuovo Nepal. Nelle nostre azioni di aiuto e soccorso non lasceremo nessuno indietro. Portare 200 volontari a lavorare in questo villaggio remoto in occasione dell’anniversario del sisma significa affrontare una grande sfida per lanciare un messaggio di speranza. ‘Dai un pesce ad un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per sempre’. Solo fornendo alle persone fiducia in se stesse e strumenti di crescita possiamo fronteggiare il disastro umanitario cui ci troviamo di fronte”.

L’obiettivo è trasformare uno dei villaggi più devastati nei quali l’associazione Jay Nepal è intervenuta in una cittadina esemplare: ricostruire la scuola per i suoi 400 studenti, dotare il villaggio di un presidio medico e riorganizzare l’agricoltura, che è la prima fonte di reddito della popolazione locale. Visti i risultati concreti portati, la scuola governativa ha dato loro piena fiducia e ha firmato un accordo per il management, la ricostruzione e la scolarizzazione dei prossimi cinque anni. Idem per il settore sanitario e per l’agricoltura.

“Posso dire che l’intero villaggio ha capito il nostro progetto e si è stretto intorno a noi con la forza di chi ha ripreso speranza e crede che davvero possa risorgere. E’ un caso unico e incredibile di partecipazione per cui le ‘vittime’ diventano attori protagonisti unendosi ai loro soccorritori”.

Ci vorranno circa 5 anni e 90,000 euro, di cui la metà già raccolti, ma secondo lo stile che li ha contraddistinti fino ad oggi, contano mese dopo mese di fare passi da giganti. Molte organizzazioni chiedono di partecipare ai loro interventi per analizzare la loro metodologia, la capacità di interazione con le popolazioni locali e la praticità nel realizzare cose concrete che facciano la differenza ad ogni intervento, unico modo per conquistare la fiducia e la partecipazione di coloro che si vogliono aiutare.

È all’indomani del terremoto, dopo aver appreso la realtà tragica della situazione, che Alberto si mette su un volo per Katmandu per portare il suo aiuto al paese che ha imparato ad amare per le sue montagne e la sua gente, “puri, gentili e dignitosi nonostante la loro povertà”.

Affronta l’emergenza del Nepal come si soccorre un amico ferito: chiede aiuto agli amici di sempre, scalatori e uomini di montagna, e ai locali appendendo volantini in ogni dove: chi vuole dare una mano, si trovi qui a quest’ora. Dopo una settimana sono in 20, dopo quattro settimane sono 232. Come prima cosa bisognava mettere in sicurezza le case pericolanti nelle aree dove c’erano gli accampamenti dei superstiti mentre le scosse di assestamento continuavano a fare stragi.

“Il secondo terremoto del 12 maggio, con epicentro a Sindhupalchowk, è arrivato mentre stavamo lavorando per mettere in sicurezza un’area pericolante. Ho avuto paura per mesi, ho avvertito quasi un terrore ancestrale, la terra che si rivolta, un rumore indescrivibile e immancabili le urla di paura e disperazione”.

Ne hanno demolite centinaia con la sola forza delle persone utilizzando corde e tecniche di emergenza. Hanno poi costruito, con il contributo dei missionari, di associazioni e molti amici, più di 400 rifugi temporanei che ospitano circa 3000 persone; hanno ricostruito l’acquedotto in dieci giorni con l’impiego di 150 volontari e soli tremila euro; hanno coinvolto gli studenti di agraria nepalesi per fare un piano di sviluppo di agricoltura sostenibile contro la malnutrizione e con 100 volontari stanno lavorando per ultimare un nuovo sistema di irrigazione eco-compatibile per ampliare le coltivazioni; hanno organizzato corsi di sartoria per fornire mezzi di sussistenza alle donne; hanno chiesto aiuto al corpo dei Vigili del Fuoco di Capannelle, Roma, che attraverso la generosità di tre istruttori nazionali volontari hanno fornito dei corsi di formazione su maceria, utile per la prosecuzione del lavoro in sicurezza e la gestione delle emergenze.

“Continuando così per settimane, senza avere una vera e propria organizzazione mi sono accorto di quello che avevamo creato: centinaia di volontari ci seguivano in azione ogni giorno e il numero cresceva insieme ad un rinato entusiasmo. E’ stato in quel momento che ho capito che non sarei più tornato indietro”.

Oggi Jay Nepal può contare su migliaia di volontari e sostenitori nepalesi, in particolare tra la fascia più giovane della popolazione compresa tra i 16 e i 25 anni che, secondo Alberto, con la loro “vitalità e voglia di fare sono la forza più fresca e promettente”.

Inoltre, un vasto numero di volontari stranieri hanno collaborato in questi mesi costituendo, ritornando in patria, dei gruppi di sostegno nei loro paesi. Grazie a loro, ad alcune associazioni e alla rete si stanno ottenendo le forze e le risorse necessarie per continuare il lavoro.

“Il terremoto in Nepal mi ha fatto capire che, più del profitto, oggi abbiamo bisogno di mettere al centro delle nostre vite l’essere umano: mi sto disimpegnando la mia azienda per dedicarmi totalmente a questo. E’ un’esperienza umana pazzesca, la possibilità di incontrare persone meravigliose con lo stesso obiettivo: aiutare chi ha bisogno e sentire di creare un mondo migliore che mette al centro l’uomo contro tanti falsi miti”.

Nelle foto, nessun muso lungo, nessuna traccia di vittimismo o piagnisteo di resa. Il Nepal sta già risorgendo attraverso lo spirito di solidarietà, altruismo e generosità che stanno dimostrandosi l’un l’altro. E questo è già di per sé un modello. Jay Napal!

Chi vuole far parte del sogno, troverà le informazioni necessarie sul sito dell’associazione.


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