mercoledì, dicembre 31, 2014
I Vangeli, e con essi la Sacra tradizione, ci presentano Maria e Giuseppe come sposi “casti”. Il modello di unione matrimoniale che sta alla base della Sacra Famiglia, così lontano dalla nostra mentalità, non può non interrogare la Chiesa e il mondo di oggi sul senso più genuino dell’amore coniugale: un amore fecondo che trascende la dimensione biologica della riproduttività. 

di Bartolo Salone 

Famiglia e Incarnazione sono legati da un nesso indissolubile, dal momento che Dio – nella sua infinita sapienza – ha deciso di farsi carne proprio all’interno di una famiglia. La Sacra Famiglia, come viene devotamente denominata, presenta però delle caratteristiche ben precise, che il disegno di Dio non ha certamente voluto lasciare al caso, proponendola piuttosto come modello anche per le generazioni a venire.
 In primo luogo, merita sottolineare come la scelta di un padre umano (Giuseppe), ancorché non biologico, da affiancare a Maria nella crescita del bambin Gesù testimonia dell’importanza che per il sano e integrale sviluppo di un bambino riveste comunque la figura paterna oltre a quella materna: l’esatto opposto di quel che sostiene l’odierna cultura di “genere”, la quale vorrebbe convincerci, contro ogni evidenza e buon senso, che per un bambino vadano bene due “genitori” quali che siano, non importa se di sesso diverso o dello stesso sesso.

In secondo luogo la Sacra Famiglia è una unione di affetti fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, e non una semplice famiglia di fatto. Eppure il matrimonio di Giuseppe e Maria presenta una particolarità degna di rilievo, trattandosi di un matrimonio celebrato con voto perpetuo di castità da parte di Maria. Le “mistiche nozze” di Maria e Giuseppe danno origine, così, ad un modello di vita matrimoniale allo stato caduto in desuetudine, ormai lontano dalla nostra mentalità e che per di più potrebbe apparire, ad una valutazione superficiale, in contrasto con la visione della Chiesa che, come è noto, riconosce nella “ordinatio ad prolem” un elemento essenziale del matrimonio, la cui esclusione da parte dei coniugi è tale da determinare, sotto il profilo giuridico, l’invalidità del vincolo coniugale. Eppure, la canonistica – per quanto possa sembrare strano – nei secoli passati è stata ferma nel sostenere la validità del matrimonio contratto con voto di perpetua continenza da parte di entrambi gli sposi (benché si tratti di una forma matrimoniale in cui gli sposi escludano a priori e in perpetuo la generazione della prole), proprio perché questo tipo di matrimonio richiama quella mistica unione tra Maria e Giuseppe quale ci viene presentata nei Vangeli e di cui si deve adesso, sia pur succintamente, parlare.

Del proposito di verginità di Maria ci riferisce esplicitamente l’evangelista Luca. Stando alla narrazione lucana, all’annuncio della nascita di un figlio da parte dell’angelo, Maria oppone la seguente obiezione: “Come avverrà questo, poiché io non conosco uomo?” (Lc 1, 34). Le parole di Maria, a dire il vero, non avrebbero alcun senso se riferite al passato. Infatti, non aver avuto rapporti intimi con un uomo prima del matrimonio, non poteva certo costituire un ostacolo alla futura generazione della prole, specie per una donna che si accostava alle nozze. Piuttosto è da condividere l’opinione di un noto biblista, René Laurentin, che in una delle sue opere più importanti, dal titolo “I Vangeli dell’infanzia di Cristo. La verità del Natale al di là dei miti”, evidenzia come “Non conosco uomo” sia un presente di stato, utilizzato per esprimere un proposito, una risoluzione, un disegno, un po’ come quando diciamo “Non fumo” o “Non bevo”, se siamo astemi.

La risposta di Maria all’angelo è quindi sicuramente legata ad un proposito di verginità (il testo di Luca rimarrebbe infatti oscuro se fosse interpretato in maniera diversa). Tale proposito, del quale non possiamo riferire con certezza le circostanze in cui è maturato, potrebbe spiegarsi in relazione ad un voto di nazireato emesso da Maria stessa o dai suoi genitori per lei, come ci suggerisce del resto il Protovangelo di Giacomo (apocrifo molto antico, risalente alla metà del II sec. d.C.), secondo cui sarebbe stata Anna, la madre di Maria, a consacrare la figlia al Signore, riconoscente per aver ottenuto da Dio la grazia di una maternità in età avanzata (questa tesi è sostenuta da diversi studiosi, fra cui Michael Hesemann nel suo “Maria di Nazareth. I luoghi, i tempi, le persone della sua vita”, ed. Paoline, 2014).

Il nazireato (dall’ebraico nezarim, “consacrato”, “santo di Dio”) consisteva, infatti, in un voto di castità solitamente temporaneo, ma che in rari casi poteva essere anche perpetuo, accompagnato dalla rinuncia alla rasatura dei capelli in segno di consacrazione a Dio. Si tratta di istituto molto antico, le cui regole si rinvengono nel Pentateuco, e precisamente nei capitoli 6 e 30 del libro biblico dei Numeri. Quest’ultimo ci dice che anche una donna poteva fare voto di nazireato, anche se la validità del voto era subordinata, per le donne, alla volontà concorde del padre o del marito. Una donna nazirea, inoltre, poteva essere concessa in sposa, ma in questo caso il voto emesso dalla donna doveva essere convalidato dal marito, altrimenti perdeva efficacia (cfr. Nm 30, 8: “Se si sposa quando è legata da voti … e il marito non dice nulla, i voti di lei saranno validi”). Pertanto, se Maria era effettivamente tenuta all’obbligo della continenza per un voto di nazireato (ipotesi che spiega verosimilmente le ragioni della verginità perpetua di Maria, anche dopo la nascita di Gesù, come solennemente dichiarato, in maniera vincolante per tutti i fedeli, dal V concilio ecumenico di Costantinopoli nel 553 d.C.), è difficile immaginare che Giuseppe non ne sapesse nulla, visto che per la legge mosaica egli avrebbe dovuto esprimere il proprio consenso ai voti della sposa, assoggettandosi così a sua volta alla regola della continenza.

Il matrimonio di Maria e Giuseppe, insomma, fu un matrimonio “casto”, ma non per questo “infecondo”. Anzi, nell’unione dei due santi sposi è rifulsa in maniera singolare quella relazione mirabile tra castità e fecondità, che rappresenta una delle intuizioni più originali del cristianesimo. Nella prospettiva cristiana, infatti, la rinuncia all’esercizio della sessualità, se risponde alla volontà di Dio, lungi dal chiudere l’uomo in uno stato di sterile isolamento, contribuisce al contrario ad aprire il cuore ad un amore più grande, che non conosce i limiti dell’esclusività del rapporto di coppia o della vita familiare. E’ questo il senso più autentico della verginità consacrata, così vivamente raccomandata da Cristo ai suoi discepoli e di cui i suoi genitori terreni furono i primi testimoni in famiglia: non chiusura, ma apertura all’amore di Dio e del prossimo con cuore indiviso.

A questa genuina relazione tra castità e fecondità, che trova la sua espressione più tipica e diretta nella scelta della verginità per il regno dei cieli, non è però estraneo – sia pure con la peculiarità sua propria – neanche il matrimonio, come la singolare esperienza di coppia di Giuseppe e Maria sta a testimoniare. Si pensi, per indicare i casi in cui questa relazione tra castità e fecondità emerge con maggiore evidenza nel matrimonio, ad un soggetto portatore di una grave malattia ereditaria che, d’accordo con l’altra parte, decide di rinunciare ad avere un proprio figlio e di ricorrere all’adozione o, ancora, a due medici missionari in un paese africano che intendono dedicarsi totalmente alle tante persone bisognose delle loro cure, rinunciando pertanto ad avere figli propri. Ma non possiamo dimenticarci neppure dei casi, dolorosi per una coppia, in cui il figlio tanto atteso non arriva mai. Casi, questi, in cui i coniugi sono chiamati ad esprimere la fecondità di coppia in modo diverso dalla procreazione, come ad esempio l’adozione, il volontariato, l’impegno missionario, apostolico o politico.

Non si tratta, in verità, di scindere o di contrapporre fecondità e procreazione, ma semplicemente di capire – come ci insegna il Concilio Vaticano II – che “il matrimonio non è stato istituito soltanto per la procreazione … E perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità” (così la Costituzione “Gaudium et spes”). Maria e Giuseppe ci aiutano a cogliere allora la dimensione della fecondità della coppia al di là di una visione “biologica” che, a torto, identifica fecondità e riproduttività.


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