Dopo aver evitato ogni intervento e aver finanziato i gruppi di opposizione siriani, la Casa Bianca vede minacciati i propri interessi. Scontri a Fallujah: muoiono 4 bambini.
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Nena News – La guerra civile irachena arriva più vicina a Baghdad: ieri scontri tra l’esercito governativo e miliziani sunniti a Fallujah – città ad ovest della capitale, nella devastata provincia di Anbar, occupata lo scorso dicembre – hanno ucciso quattro bambini e una donna. La notizia arriva in contemporanea alla decisione dell’Onu di alzare al massimo il livello di emergenza nel paese .
A nord prosegue l’avanzata dell’Isil: i qaedisti stanno convergendo a Qara Tappa, nella provincia di Ninawa, la seconda a cadere in mano jihadista all’inizio di giugno. Se Qara Tappa venisse presa, si allargherebbe il fronte controllato dall’Isil lungo il confine con il Kurdistan, dove da settimane i peshmerga tentano di arginarne l’avanzata.
Cresce anche la crisi umanitaria. Secondo fonti sul posto, i miliziani dell’Isil avrebbero rapito un centinaio di donne e bambini, la settimana scorsa, nell’attacco alla comunità yazidi di Sinjar. Dopo aver inviato 130 consiglieri militari, tra cui marines e forze speciali, per gestire le operazioni di soccorso degli yazidi intrappolati sul monte Sinjar, ieri gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro: «L’operazione di salvataggio è molto meno probabile – ha detto il portavoce del Pentagono, John Kirby – Ci sono meno rifugiati del previsto e le loro condizioni sono migliori delle attese. Continueremo comunque a fornire aiuti umanitari». E mentre il governatore della provincia di Anbar, Ahmed Khalaf al-Dualimi, ha detto di aver ricevuto dagli Usa la promessa di dare sostegno aereo contro i jihadisti, dai jet vengono lanciati acqua e cibo e con le bombe si tenta di aprire un corridoio per permettere la fuga degli yazidi: 45mila persone sarebbero riuscite a lasciare il monte Sinjar, 4.500 quelle ancora intrappolate.
Gli Stati Uniti intendono evitare con ogni mezzo un coinvolgimento diretto nel conflitto iracheno: «I 130 consiglieri non parteciperanno a nessun tipo di combattimento in Iraq – ha ripetuto Ben Rhodes, consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca – Ci sono molti modi in cui possiamo collaborare all’evacuazione delle persone su quella montagna». Come lavorare accanto ai peshmerga, fornire loro nuove armi, bombardare dall’alto. Ma è grave e irresponsabile limitarsi ad un intervento rivolto solo alla crisi umanitaria: quel dramma è figlio di un’azione di più vasto respiro, un’operazione volta alla spaccatura del paese e alla creazione tra Siria ed Iraq di un califfato sunnita. Un’eventualità che appare sempre più concreta e a cui l’amministrazione Obama sta rispondendo flebilmente, nonostante le gravi responsabilità che pesano sulla Casa Bianca, errori di valutazione e volute strategie politiche cominciate con l’occupazione dell’Iraq e l’inasprimento dei suoi settarismi interni e finite con l’appoggio incondizionato alle opposizioni al presidente siriano Assad.
«All’improvviso l’Isil è diventato una minaccia che merita i missili americani – spiega su Counterpunch Shamus Cooke, sindacalista e analista di Workers Action – Per quasi due anni il presidente Obama ha completamente ignorato il più grande e brutale gruppo terroristico del Medio Oriente, permettendogli di diventare un potere regionale. Per oltre due anni l’Isil e altri gruppi qaedisti sono stati la principale forza trainante della guerra siriana, 170mila morti e milioni di rifugiati. E ora, all’improvviso Obama vuole intervenire per ragioni ‘umanitarie’ contro l’Isil. La ragione vera è un’altra: ora l’Isil minaccia gli interessi americani, mentre prima li sosteneva».
Dal ritiro delle truppe Usa dall’Iraq nel dicembre 2011 la Casa Bianca ha finto di non vedere i primi germogli di una futura guerra civile, ignorando l’avanzata di un’organizzazione molto più strutturata e ben finanziata di quanto sia mai stata Al Qaeda. L’offensiva dell’Isil, che venga arginata o meno, modificherà irrimediabilmente il volto dell’Iraq e della regione. A monte, il sostegno Usa ai gruppi di opposizione moderati anti-Assad, molto spesso assorbiti da quelli radicali, e quello diretto dei paesi del Golfo, alleati di vecchia data di Washington e tra i primi responsabili dell’innaturale crescita dei movimenti qaedisti in Siria e Iraq.
«Obama sapeva bene che ad inviare loro montagne di soldi, armi e miliziani era l’Arabia Saudita – continua Cooke – La Casa Bianca ne aveva bisogno contro Assad e, quando l’Isil ha attaccato l’Iraq, si è limitata a chiedere la formazione di un governo di unità nazionale. Obama voleva questo: un cambiamento di regime in entrambi i paesi e ha usato l’Isil come alleato de facto. Fino all’offensiva contro i curdi: lì l’Isil ha superato la linea rossa andando contro il Kurdistan iracheno, alleato degli Usa e zona ricca di risorse naturali. Da qui l’inizio di bombardamenti che Baghdad aveva chiesto per mesi senza mai ottenere nulla».
di Chiara Cruciati – Il Manifesto Nena News – La guerra civile irachena arriva più vicina a Baghdad: ieri scontri tra l’esercito governativo e miliziani sunniti a Fallujah – città ad ovest della capitale, nella devastata provincia di Anbar, occupata lo scorso dicembre – hanno ucciso quattro bambini e una donna. La notizia arriva in contemporanea alla decisione dell’Onu di alzare al massimo il livello di emergenza nel paese .
A nord prosegue l’avanzata dell’Isil: i qaedisti stanno convergendo a Qara Tappa, nella provincia di Ninawa, la seconda a cadere in mano jihadista all’inizio di giugno. Se Qara Tappa venisse presa, si allargherebbe il fronte controllato dall’Isil lungo il confine con il Kurdistan, dove da settimane i peshmerga tentano di arginarne l’avanzata.
Cresce anche la crisi umanitaria. Secondo fonti sul posto, i miliziani dell’Isil avrebbero rapito un centinaio di donne e bambini, la settimana scorsa, nell’attacco alla comunità yazidi di Sinjar. Dopo aver inviato 130 consiglieri militari, tra cui marines e forze speciali, per gestire le operazioni di soccorso degli yazidi intrappolati sul monte Sinjar, ieri gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro: «L’operazione di salvataggio è molto meno probabile – ha detto il portavoce del Pentagono, John Kirby – Ci sono meno rifugiati del previsto e le loro condizioni sono migliori delle attese. Continueremo comunque a fornire aiuti umanitari». E mentre il governatore della provincia di Anbar, Ahmed Khalaf al-Dualimi, ha detto di aver ricevuto dagli Usa la promessa di dare sostegno aereo contro i jihadisti, dai jet vengono lanciati acqua e cibo e con le bombe si tenta di aprire un corridoio per permettere la fuga degli yazidi: 45mila persone sarebbero riuscite a lasciare il monte Sinjar, 4.500 quelle ancora intrappolate.
Gli Stati Uniti intendono evitare con ogni mezzo un coinvolgimento diretto nel conflitto iracheno: «I 130 consiglieri non parteciperanno a nessun tipo di combattimento in Iraq – ha ripetuto Ben Rhodes, consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca – Ci sono molti modi in cui possiamo collaborare all’evacuazione delle persone su quella montagna». Come lavorare accanto ai peshmerga, fornire loro nuove armi, bombardare dall’alto. Ma è grave e irresponsabile limitarsi ad un intervento rivolto solo alla crisi umanitaria: quel dramma è figlio di un’azione di più vasto respiro, un’operazione volta alla spaccatura del paese e alla creazione tra Siria ed Iraq di un califfato sunnita. Un’eventualità che appare sempre più concreta e a cui l’amministrazione Obama sta rispondendo flebilmente, nonostante le gravi responsabilità che pesano sulla Casa Bianca, errori di valutazione e volute strategie politiche cominciate con l’occupazione dell’Iraq e l’inasprimento dei suoi settarismi interni e finite con l’appoggio incondizionato alle opposizioni al presidente siriano Assad.
«All’improvviso l’Isil è diventato una minaccia che merita i missili americani – spiega su Counterpunch Shamus Cooke, sindacalista e analista di Workers Action – Per quasi due anni il presidente Obama ha completamente ignorato il più grande e brutale gruppo terroristico del Medio Oriente, permettendogli di diventare un potere regionale. Per oltre due anni l’Isil e altri gruppi qaedisti sono stati la principale forza trainante della guerra siriana, 170mila morti e milioni di rifugiati. E ora, all’improvviso Obama vuole intervenire per ragioni ‘umanitarie’ contro l’Isil. La ragione vera è un’altra: ora l’Isil minaccia gli interessi americani, mentre prima li sosteneva».
Dal ritiro delle truppe Usa dall’Iraq nel dicembre 2011 la Casa Bianca ha finto di non vedere i primi germogli di una futura guerra civile, ignorando l’avanzata di un’organizzazione molto più strutturata e ben finanziata di quanto sia mai stata Al Qaeda. L’offensiva dell’Isil, che venga arginata o meno, modificherà irrimediabilmente il volto dell’Iraq e della regione. A monte, il sostegno Usa ai gruppi di opposizione moderati anti-Assad, molto spesso assorbiti da quelli radicali, e quello diretto dei paesi del Golfo, alleati di vecchia data di Washington e tra i primi responsabili dell’innaturale crescita dei movimenti qaedisti in Siria e Iraq.
«Obama sapeva bene che ad inviare loro montagne di soldi, armi e miliziani era l’Arabia Saudita – continua Cooke – La Casa Bianca ne aveva bisogno contro Assad e, quando l’Isil ha attaccato l’Iraq, si è limitata a chiedere la formazione di un governo di unità nazionale. Obama voleva questo: un cambiamento di regime in entrambi i paesi e ha usato l’Isil come alleato de facto. Fino all’offensiva contro i curdi: lì l’Isil ha superato la linea rossa andando contro il Kurdistan iracheno, alleato degli Usa e zona ricca di risorse naturali. Da qui l’inizio di bombardamenti che Baghdad aveva chiesto per mesi senza mai ottenere nulla».
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