venerdì, febbraio 07, 2014

Accesi una sigaretta: anche ai condannati a morte ne è concessa una prima dell'esecuzione. Lo avevo visto molte volte nel film...
Uscii sulla porta dello studio a guardare il nuovo giorno che nasceva e dentro me si levò una preghiera al cielo. Me ne stupii. Quanto tempo era che non avevo più pregato? Inaspettatamente scese nel mio cuore una grande pace. "Sia quello che deve essere. Sia fatta la tua volontà, mio Signore!"
Con quel pensiero, rientrai nello studio, mi sedetti davanti al microscopio e mi dissi: "Vediamo di che si tratta. Al massimo, mica devo morire oggi, no?" Accostai gli occhi e la visione binoculare mi colpì come un pugno nello stomaco.

Osservai le cellule scure dalla forma strana ed inconsueta: cellule senza dubbio mutate. Ciò che mi stava crescendo nella mano era una formazione neoplastica maligna, non c'era l'ombra di un dubbio: era un cancro e con la C maiuscola.
Non rammentavo bene la patologia istologica, non era il mio campo e poi erano trascorsi troppi anni dai tempi dell'Università...
"Andrò a rivedere il testo - pensai corrucciato - l'esame l'ho pur dato... che cavolo!" Infatti, rincasato per il pranzo di mezzogiorno corsi nella mia libreria e trovai il libro che cercavo. Scorsi in fretta le pagine e le illustrazioni. Giulia stava seduta accanto a me. Il pranzo si era raffreddato sulla tavola ma nessuno dei due ci pensava.
"Eccolo! - Esclamai poggiando il dito sull'illustrazione colorata di una cellula - Guarda, Giulia, è questo! Caspita! Mica paglia. - Esclamai costernato - E' uno dei peggiori e dei più rari oltre che più aggressivi. Sai come si chiama?"
"N..no!" Balbettò mio moglie.
"Sarcoma epiteliale, si chiama sto figlio di buona donna che ho in mano! Credo che ci sia poco da fare attualmente, tesoro. Pensa che in tanti anni di professione, non me ne è mai capitato uno. Un caso di questi voglio dire."
"Va bene, ma ci sarà pur qualcosa da fare no?" Singhiozzò Giulia.
"Non ne sono al corrente. Magari sì, oggi si sono fatti grandi progressi nel campo della cura dei tumori..."
"Ma tu sei sicuro che è... che è quella cosa lì?" Mi chiese Giulia che cercava un filo di speranza.
"Sì, amore mio, è davvero quella "cosa lì" come dici tu. Se vuoi ti porto su il microscopio da vedere..."
"No, non voglio vedere niente. Voglio solo che non perdiamo tempo prezioso. Oggi telefono al Centro Tumori a Milano... Non conosci nessuno là dentro?"
"Beh! Un paio di amici che stanno là, li ho."
"Allora, Norberto, chiamane uno e fatti dare un appuntamento. Oggi, anzi, adesso!"
"Adesso stanno operando. Verso le quattro, a quell'ora dovrebbero aver finito."
"Alle ragazze che diciamo?" M'interrogò Giulia asciugandosi due grossi lacrimoni che le erano scesi sulle gote. Quel gesto mi rassicurò: ora non avrebbe più pianto, ora avrebbe iniziato a combattere al mio fianco.
"La verità, amore mio. - Risposi cingendole le spalle con un braccio - E' sbagliato cercare di nascondere quello che è. Norma poi non è stupida: se ne accorgerebbe in due minuti che qualcosa non va.
Alice la berrebbe per qualche giorno: di medicina non ne mastica... ma alla fine..."
"Hai ragione Norberto. Però gli parlerò io. So come prenderle."
"Te ne sono grato Giulia. Davvero!"
Tomai in studio e fui attratto dal desiderio di togliere il vetrino da sotto il microscopio e schiacciarlo sotto le suole delle scarpe per distruggerlo. Ma poi risi di me stesso.
"Fosse così facile distruggere questo maledetto assassino solo calpestandolo..." Tornai ad osservarlo: era ancora là, bello, visibile, ineluttabile.
"La vedremo! - Pensai - Non mi avrai tanto facilmente, bastardo!"
Tre giorni dopo, grazie all'interessamento di un collega ed amico, stavo nella grande sala d'attesa del Centro Tumori a Milano. Attorno a me, tanta gente, tanta povera gente che veniva da ogni parte d'Italia ed anche dall'estero a cercare una via d'uscita dalla disperazione. Sembrava di essere seduti in un anfiteatro. File di poltroncine di plastica formavano un quadrato nella grande sala con per soffitto grandi vetrate attraverso le quali filtrava la luce del cielo di Milano.
S'aspettava che dalle porte dei vari ambulatori, le infermiere chiamassero il nome dei sofferenti. Mi sentivo a disagio in quell'attesa: io, di solito, ero dall'altra parte: dalla parte di quelli che curano il prossimo.
Su quanti volti di coloro che attendevano come me vidi dipinta la morte. L'avevo veduta così tante volte nella mia professione che la riconoscevo subito. Ma a me no, non doveva capitare, non poteva. Oppure ora si voleva vendicare perché ogni tanto, ero riuscito a sottrarle alcune prede.


"Colombo! Dottor Colombo, prego!"
Un'infermiera grossa col golfino blu sulle ampie spalle mi aveva chiamato. Gettai un'occhiata a Giulia ed a Norma che mi stavano sedute accanto: "Voi no, aspettate qui!" Lo dissi in tono che non ammetteva repliche.
Entrai in un piccolo studio bianco. Un collega m'invitò a sedere davanti a sé. Mi fece impressione sedermi dal lato "sbagliato" della scrivania!" Fece l'anamnesi del mio caso. Era molto preparato ed al contempo molto, molto gentile. Mi propose che ci si desse del tu: tanto, fra colleghi...
"Certo - avevo risposto sentendomi già molto più a mio agio - ti ringrazio. Dunque, che ne pensi?"
Mi guardò un attimo negli occhi poi li abbassò subito: "Se devo essere sincero, e lo sarò con te sino in fondo - precisò - non mi piace neanche un po'! Dove sei andato a prenderlo? Sai bene che è un tumore rarissimo e sai anche che ci sono poche speranze. E' uno fra i più aggressivi e maligni."
"Lo so! - Confermai e poi domandai con una freddezza che non mi parve fosse mia - Quanto?"
"Di solito se non riusciamo ad intervenire, quattro o cinque mesi... Mi spiace Norberto. "
"Lascia andare. Tanto si muore una volta sola. Piuttosto, che terapia usate in questi casi?" Chiesi con qualche apprensione.
Prima di rispondermi il collega si accese una sigaretta.
"Che fai, fumi? - Chiesi stupito - Proprio qui dentro! Con tutte le campagne anti-fumo che conducete?"
"Fate come dico! Non fate come faccio!" Rispose sorridendo.
La tensione che aleggiava nel piccolo studio cadde di colpo. Risi anch'io e di gusto.
"Offrimene una - l'invitai - tanto mica mi verrà il cancro, no?"
Ora sembravamo due vecchi amici che si ritrovano dopo tanto tempo.
"Tornando alla terapia - mi spiegò Manfredo, anzi il prof. Manfredo - fino a due anni fa, era chirurgica. Zac! Via la mano o il piede, oppure via il braccio, tutto o via la gamba. Se si era fortunati tutto finiva lì.
Cruento quanto vuoi, ma almeno..."
"Ed oggi? Che alternativa c'è?" Chiesi guardandolo dritto negli occhi e sporgendomi in avanti col busto quasi a volergli essere più vicino.
"Da due anni, come ti ho detto, abbiamo instaurato una terapia che si chiama Perfusione Ipertermica. Sta dando buoni risultati sai?" Disse Manfredo battendomi una mano sulla spalla. Ne abbiamo tirati fuori già un centinaio. Tutti vivi e... speriamo che lo restino. A quest'ora sarebbero già stati vinti dal male. E' un terapia ottima. Un po' pesantina, ma ne vale la pena. Tu mi sembri in grado di sopportarla egregiamente. Comunque ti ricovero qui da noi per una serie di esami preliminari. Va bene il giorno 20?"
"Sì, ottimo. Avrò anche il tempo per passare le consegne al sostituto."
Manfredo fece qualche telefonata. Quando terminò di occuparsi di accelerare le pratiche per il ricovero gli chiesi informazioni su questa nuova terapia cui mi avrebbe sottoposto.
"Tecnicamente è molto semplice - spiegò - si fa una incisione sotto la clavicola e si recide l'arteria del braccio che rimane così pressoché isolato dalla circolazione del resto del corpo. Poi si ricollega l'altro capo dell'arteria, quella del braccio, ad un tubicino che convoglia il sangue ad una pompa esterna. Questa riscalda il sangue ad una quarantina di gradi centigradi e lo fa poi circolare per qualche ora, diciamo da sei a otto nell'arto isolato. Solo che il trucco - continuò sorridendo compiaciuto - è che assieme al tuo sangue circola anche 1 mg. di T.N.F ... Se c'è una cellulina, anche la più piccola, questo potentissimo antitumorale la uccide..."
Lo guardai pensieroso: in fondo, era l'uovo di Colombo, no? "Pensi che cuocerò anche il mio sarcoma?" Chiesi "Lo farà lesso come un tacchino. Non ti preoccupare!"
"Sarà doloroso?" Mi volli informare preoccupato.
Manfredo scosse la testa: "Tu sarai addormentato."
"Per sei o otto ore? Tutto quel tempo?"
"Eh, sì! Quando ti sveglierai avrai un bei braccione rosso e gonfio, farai fatica a muoverlo per qualche tempo, ma del tuo inquilino, non sarà rimasta traccia. Ne vale la pena no?"
"Ma certo che vale - confermai con entusiasmo - Sai mi sarebbero girate un pochino di dover morire proprio ora. Non sono mica vecchio!" "Questo è certo - rispose il collega con un accattivante sorriso - Sai io sono del tutto d'accordo con te. Ho 47 anni anch'io e detto fra noi... mi piace ancora... Capito no?" "Come no! Poi, con tutto quel ben di Dio che ho visto girare qui dentro...Ah!" "Non ci si può lamentare in effetti...." Tornando a casa spiegai tutto a mia moglie e sul suo visetto tornò il sorriso. Il giorno stabilito entrai al Centro Tumori e Manfredo venne a salutarmi personalmente. Mi accompagnò alla mia camera, occupata anche da tre altri sfortunati e mi ragguagliò su tutti gli esami preliminari cui m'avrebbe sottoposto. Essendo medico a mia volta ebbi modo di constatare la meticolosità estrema che si poneva in quel luogo di dolore, prima di procedere all'atto chirurgico, anche al più semplice.
Trascorsi un'intera settimana tra un esame e l'altro ed i risultati furono estremamente incoraggianti.
Il male che mi aveva aggredito era ben localizzato al palmo della mano e metastasi in giro per il mio corpo, come mine vaganti, non ne risultarono.
Poi venne il giorno. "Il giorno della vendetta" come lo battezzai ironicamente mentre, dopo avermi fatto la pre-anestesia, mi trasportavano alla sala operatoria.
Vidi Manfredo e la sua equipe pronti ad intervenire. Strizzai l'occhio al collega un momento prima di sprofondare in un lungo sonno chimico ed in una immobilità totale assicurata dal curaro che mi entrò nella vena assieme all'anestetico. Non avrei dovuto sognare! Non si sogna quando si è sotto anestesia, invece quel brutto tizio col vestito grigio ed il Borsalino sul cranio entrò senza nemmeno bussare alla porta. "Lei è veramente un irriducibile testardo, dottore! Esordì picchiando una violenta manata sul piano della mia scrivania. Poi, sotto il mio sguardo allibito, aprì la 24 ore che portava sempre con sé ed estrattone alcuni fogli ne cercò uno che evidentemente mi riguardava.
"Ecco... osservi qui, prego! Vede cosa c'è scritto?"
Con mano tremante presi quel foglio e lo lessi. Nulla se non due date scritte in oro ed inequivocabili 6 luglio 1965 - 6 aprile 2012.
Tentai di obbiettare qualcosa, ma non trovavo le parole.
"Glielo avevo detto no? Non ricorda più? S'era parlato di Pasqua. Giorno più giorno meno...
"Ma io non sono d'accordo! - Gridai con quanto fiato avevo in gola - Ho ancora parecchio da fare..."
"Beh! Il tempo è scaduto dottore. Non me ne voglia. Come si diceva una volta: ambasciator non porta pena!"
Ero terrorizzato!
"Ora che accadrà? Posso almeno saperlo?" Domandai quasi pregando. "Più che saperlo - rispose l'uomo in grigio - lei lo vedrà con i suoi occhi quel che avverrà. Sarà testimone di se stesso. E' ora! Stia attento a come è facile morire... Oh, lei non avvertirà nulla: nemmeno il più piccolo dolore! Però dovrà aprire gli occhi. Coraggio! - Continuò con un tono di voce completamente diverso da quello che gli conoscevo - Apri gli occhi!"
Obbedii e ciò che vidi, sulle prime mi spaventò. Mi trovai a galleggiare nell'aria senza peso, come gli astronauti in orbita attorno alla terra. Circa tre - quattro metri sotto di me c'era una sala operatoria e sul lettino il mio corpo con attorno una decina di medici col camice verde.
Vedevo benissimo gli strumenti e la macchina di monitoraggio accanto al lettino, sentivo perfettamente ogni rumore ed ogni parola.
"... Madonna lo stiamo perdendo!- Gridò quasi Manfredo - Presto, elettrostimolatore! - ordinò - Anche l'Adrenalina. Dai, muoviti! Direttamente nel muscolo cardiaco!"
Vidi il mio corpo sobbalzare due, tre, dieci volte sotto le scariche di corrente che avrebbero dovuto far ripartire il cuore. Ero esterrefatto: non sentivo male...
L'uomo in grigio lo aveva detto: "Non il più piccolo dolore..." Tentarono altri mezzi i dottori per riportarmi in vita ma dopo dieci minuti Manfredo togliendosi la mascherina, costernato ed avvilito disse all'aiuto che aveva a fianco: "E' incredibile! L'abbiamo perso. E' pazzesco! Era in perfetta forma fisica. Guarda i suoi esami: nulla fuori posto. Valori esatti... Eppure..."
"Che cosa gli sarà capitato?" Domandò un altro medico mentre si sfilava i guanti chirurgici.


"A me lo chiedi? Io penso che il destino faccia ciò che vuole o deve, nonostante noi.
Ricordi la settimana scorsa quel vecchio di 84 anni col polmone distrutto dal tumore? L'abbiamo operato, pareva che dovesse andarsene sotto i ferri tanto era rischioso l'intervento e invece è ancora su in corsia e si sta rimettendo come un razzo. Tocca il culo alle infermiere! Non avrei scommesso una busca sull'esito dell'intervento... Dimmi se non è il destino!”
Rimasi lì, in quella fredda saletta chirurgica a fluttuare vicinissimo al soffitto immacolato ed ad osservare con curiosità il mio corpo disteso sul lettino finché una mano pietosa coprì il viso con il lenzuolo verde.
Il fatto curioso fu che non me ne dispiacque nemmeno un po'! "Tanto ora sono morto..." Mi sorpresi a pensare. Poi mi spaventò e mi sentii perduto.
Ero solo. Solo come non mai! Attorno a me, nessuno! Ricordai il racconto della paziente, ma nessuno mi stava vicino ne mi avrebbe preso per mano conducendomi su quell'autostrada che portava... Ma dove portava?
Attesi che accadesse qualcosa, che so, che mi si aprisse un tunnel di luce davanti o qualche altro fenomeno. Non accadde nulla. Guardai il grande orologio rotondo che stava in sala operatoria dove ero morto: erano passate quasi due ore da quando l'evento si era verificato. "Come mai - mi domandai - lasciano lì il corpo? Perché non lo portano via?"
Ebbi la risposta qualche minuto più tardi. Entrò un tizio che si tirava dietro un carrello con sopra allineati strumenti chirurgici e fra questi, con orrore, notai una sega circolare.
"Stanno per farmi l'autopsia!" Realizzai di colpo. "No, non voglio vedere mentre mi fanno a fettine... Però... perché no? In fondo è il corpo che è morto. Io non sono quel... coso là! Io sono vivo e... no, ora sono uno spirito, un fantasma. Va bene, starò qui a vedermi affettare." Decisi.
Il mio corpo venne scoperto totalmente ed il tizio che era entrato in sala, s'infilò i guanti e prese, dal carrello accanto al lettino, un bisturi con una lama lucente ed affilata, la puntò deciso sotto il mio sterno e l'affondò nella carne. Sobbalzai: fu più per l'impressione che per altro.
Ora io ero solo uno spettatore come uno studente di medicina che osserva il professore al lavoro sul tavolo di anatomia. La lama, sapientemente guidata raggiunse, il pube e si fermò. Pinze divaricatrici allontanarono i lembi dell'incisione mettendo bene in vista i visceri.
Il tizio lavorava bene, si vedeva che era molto esperto nel lavoro. "Per diana! - esclamò ad un tratto - dentro è tutto a posto! Non risiede qui la causa della morte. Vediamo la testa. "
Prese il seghetto circolare e dopo avermi, senza troppi riguardi rivoltato a pancia sotto, mise in moto quell'aggeggio infernale.
Vidi sollevarsi, dalla nuca che mi era appartenuta, nuvolette bianche dell'osso del cranio che stava asportando. Qualche minuto più tardi la calotta cranica si aprì come il guscio di una noce di cocco ed apparve il cervello.
Scesi dal soffitto e mi portai alle spalle del medico settore. Quasi a metà dell'emisfero di destra notai una macchia scura.
"Ecco cosa mi ha ucciso! Avevo una bella metastasi al cervello. Strano però: mai avuto mal di testa... Ma perché è accaduto proprio qui e durante l'intervento?" Mi chiesi stupito.
Intanto anche il collega, o meglio l'ex collega rilevò quella tumefazione e scosse il capo: "Povero Cristo! Meno male che te ne sei andato sotto anestesia. Non sai nemmeno quanto avresti dovuto patire fra dolore e paralisi progressive! Saresti divenuto l'ombra di te stesso. Mi spiace, ma per te è stata una fortuna." Affermò mentre mi richiudeva il cranio.
Prese a cucirmi l'addome con ago e filo senza curarsi troppo dei punti che metteva. Non serviva più fare un bel lavoro, intanto. Mi ricoprì ancora col lenzuolo verde e lasciò la stanza.
"Beh! Ora è meglio che me ne vada pure io. - Decisi - Andiamo a vedere com'è l'al di là."
Mi avviai verso la porta bianca e feci per afferrare la maniglia: "Che sto facendo? - Chiesi a me stesso con una sorta di ironia - Esco ancora dalle porte? Ora sono un fantasma e quindi posso anche passarvi attraverso no?" Infatti lo feci.
Era la prima volta e mi trovai a disagio ma la cosa riuscì perfettamente. "E' tutto vero allora quello che si racconta circa i fantasmi!" Risi. Ora potevo anche farlo! Ma quel sorriso morì subito: là, in fondo al corridoio, mia moglie e le mie due ragazze piangevano singhiozzando.
Mi avvicinai velocissimo: "No! - Gridai - Non fate così! Io non sono veramente morto! Sono qui! Non mi sentite?" Stesi un braccio a cingere le spalle di Giulia ma, con mio massimo sgomento, non potei toccarla: potevo solo attraversarle quelle spalle. Come mettermi in contatto con loro? Mi stavo disperando: mi faceva molto male il loro dolore. Provai ad esprimermi col pensiero credendo di interferire nei loro: nessun risultato. C'era come una barriera fra di noi. Gesù! Che avrei potuto mai fare? Rimasi lì con la totale incapacità di poter comunicare in qualche modo.


Qualche minuto dopo giunse mia cognata Carla col figlioletto rimasto andicappato dopo la caduta dalla bicicletta. Le donne si abbracciarono in lacrime. Il bimbo, apatico, si era seduto su una panca verde del corridoio e guardava il pavimento.
Gli andai accanto e l'osservai attentamente: era come se lui nemmeno ci fosse in quel luogo.
Provai ad entrare nei suoi pensieri: non trovai barriere di sorta, non v'era nulla in quel povero cervello semidistrutto dall'ematoma: vi si agitavano solo sensazioni confuse, impulsi che avrebbero dovuto diventare pensiero ma che si bloccavano di colpo trovando la loro via naturale preclusa da miriadi di neuroni distrutti.
"Mio Dio - considerai sgomento - mio nipote è peggio che morto! E' come un albero, una pianta. Vive biologicamente e basta. Che crudeltà! Pensare quant'era vivace ed intelligente prima..." Volsi lo sguardo e con mia somma sorpresa vidi accanto a me l'uomo vestito in grigio e con il Borsalino in testa.
Mi alzai di scatto dalla panchina verde ove mi ero seduto, seduto tra virgolette ovviamente, accanto al mio sfortunato nipote.
Come mai non lo avevo riconosciuto prima? Quell'uomo era... era... mio padre.
"Tu! - Esclamai quasi con rabbia - Dunque sei tu!"
La figura in grigio si tolse il cappello.
"Sì, Norberto, sono proprio io! Non ti era mai passato per la mente? Dimmi: chi ti tenne per mano quando cominciasti a muovere i primi passi? Chi fu la persona che al mondo ti fu più vicina ed amica?"
"Tu, papà .- Risposi senza esitare - Quando te ne andasti mi sembrò di essere solo al mondo, nonostante la mamma e la famiglia... Mi mancavi tanto." "Dunque trovi strano - Chiese - che adesso ci sia io a guidarti in questo altro mondo?" Un nodo mi serrava la gola e le lacrime scesero sulle mie guance. "Papa - singhiozzai - si può piangere anche qui?" Sorrise e mi prese per mano.
Mi sentii benissimo di colpo quando avvertii il contatto. "Ti voglio bene." Dissi solamente.
"Anch'io figliolo, molto. Ora andiamo, devi vedere qualcuno..."
Mi voltai ancora una volta a guardare coloro che avevo lasciato per sempre. Per sempre?
Mi colpirono gli occhi del piccolo andicappato: guardavano come se... come se mi potessero vedere. Provai un grande dolore rimandandogli un sorriso. Sorrise anch'egli. Accanto a mio padre, al mio caro padre, uscii dall'Istituto: non mi meravigliai di non avvertire il calore del sole e la carezza della tiepida aria di primavera sul mio corpo nudo. Stavamo nella strada in mezzo ai taxi gialli che stazionavano davanti all'ingresso del nosocomio.
"Sei pronto Norberto?" Domandò mio padre. Lo ero e glielo dissi.
Mi strinse forte la mano e ci trovammo, come in un sogno, a percorrere una lunga via: sembrava un'autostrada.
Rammentai il racconto fatto da una mia paziente chiamata Anna, tanto, tanto tempo prima.
Camminammo per un tempo indefinito io e mio padre, in mezzo a tanta altra gente.
Camminavamo ma non eravamo stanchi... poi, di colpo quella strada finì. Non c'era più nulla attorno a noi, nemmeno sopra o sotto.
Mio padre con un radioso sorriso disse: "Siamo arrivati figliolo. Ora devi andare..."
"Dove papà?"
"Lo sai. Non occorre che te lo dica. Avvederci."
Ora mi trovai solo, solo nel nulla. Però... sapevo dove dovevo andare. L'avevo sempre saputo.
"Rimpianti?" Chiese la voce.
"No! Ora non più! Ora che sono tornato con Te."
Le parole che pronunciai mi stravolsero di gioia: finalmente ero tornato ad essere ciò che ero da sempre stato, una parte di Dio, io stesso Dio. Io stesso tutto: io la conoscenza, io l'amore, il passato, il presente, il futuro. Compresi tutto ed il tutto si mostrò senza veli.
Sorrisi degli errori e della mia pochezza di uomo, delle ansie e delle paure, dei miei incompleti sentimenti. Finalmente io ‘ero'.
"Così semplice curare il cancro? - mi sorpresi a pensare - Così semplice volare per l’Universo, senza costosi razzi e quella stupidaggine chiamata ridondantemente tecnologia?"
Contemplai tutto me stesso nell'immensità del mio sapere. Nulla era più un segreto. Nulla impossibile: io avevo creato ogni cosa. Persino il tempo doveva piegarsi alla mia volontà. Il corpo nudo era la perfezione ed era sfolgorante di luce. Io ero la luce! "Ora sono nato davvero!" Pensai.
"Sicuro?" Chiese ancora la voce. La mia voce.
"Sì, ne sono certo!"
"E quel piccolo che ci ha sorriso laggiù?" Quella domanda mi fece male. Io sapevo perché.
"Cosa dobbiamo fare?" Domandai alla parte maggiore della mia Essenza.
"Saremo Giorgio. Sarai Giorgio. Lo desideri?"
Lo desiderai e non ebbi paura di farlo. Potevo fare tutto. Sono Giorgio. Mi sento come se fossi avvolto in un bozzolo d'acciaio entro il quale è difficoltoso anche il solo respirare. Non posso pensare... non posso... sono prigioniero.
Una grande tristezza scende nel mio cuore... Ora mi prendono per mano e mi fanno camminare lungo un corridoio accanto alle cui pareti stanno delle panchine di plastica verde... Perché piangono le donne che ho accanto? Perché non capisco? Mi sto innervosendo ed agitando. Mi obbligano a trangugiare una piccola pastiglia bianca insieme ad un sorso d'acqua...
"Poverino... è epilettico, ci vuole il Gardenale da 50 mg. infermiera... Grazie..."
Inghiotto e poco dopo la smania passa. Mi sto istupidendo...
"Fottetevi tutti!... Tutto gira attorno a me. Chiudo gli occhi altrimenti cado.
Qualcuno con uno sforzo mi solleva da terra e mi prende in braccio.
"... Non dovevi portarlo qui, Carla..." Dice una donna. "E dove lo lasciavo? Non appena Norma mi ha telefonato che Norberto era morto, sono corsa qui per starti vicino, sorella mia... "
Chi è morto? Cosa vuoi dire "morto"? Chi è Norberto? Che nome strano..." Considero fra me mentre scivolo nel sonno.
Mi sveglio: sono in un letto che sembra una gabbia: ai lati ci sono le sbarre. Non capisco... non devo più ingoiare quella porcheria bianca che si chiama... come diavolo si chiama? Finisce in ale, come ospedale, giornale...no, Gardenale. Ecco sì, Gardenale. Se me la danno ancora devo far finta di mandarla giù poi, quando non mi vedono, devo sputarla fuori. Quella schifezza mi cuoce il cervello. Pensano che io sia un deficiente solo perché non posso parlare e non posso agire come fanno loro... Gliela farò vedere io..."
"Giorgio! Giorgio! Mi senti?" Quella che si chiama Carla, bionda, bella, dice che è la mia mamma.
Cerco di sollevare lo sguardo verso il suo viso, ma i muscoli del collo non rispondono e la testa non si alza. "Devo fare qualcosa - penso - Io so farlo."
Infatti dal mio cervello lascio partire una scarica di pensiero-volontà che raggiunge i muscoli del collo e la mia testa si solleva.
"Dio! Mi guarda! - Grida la donna - Mi vedi, amore mio? Giorgio, tesoro, dimmi che mi vedi e mi riconosci!" Sorrido.
Lo sforzo che ho fatto mi è costato una fatica terribile ed il mio capo toma a reclinarsi, inerte sul petto, mentre dalle mie labbra socchiuse, scende un filo di bava trasparente. Non fa nulla, ora conosco il modo per riattivare questo cervello atrofizzato. Ora so che Giorgio, cioè io, tornerà... tornerà. Giorgio crescerà, sarà un bimbo completamente normale poi un giovane uomo intelligentissimo e infine farà il medico. Sarà lui che scoprirà la cura per quella malattia chiamata cancro che ora fa così paura e che sembra invincibile? Probabilmente sì, perché il piccolo Giorgio sono io e io so che sono Dio. Mi correggo: una infinitesima parte di Dio. A volte si può anche tornare... 20 aprile 2013. Sono di nuovo qui!


Fine


È presente 1 commento

Anonimo ha detto...

troppo bello. Bravissimi. date la speranza a chi soffre.
Barbara

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