martedì, dicembre 24, 2013
Con uno stile sobrio, meditato e attento ai segni dei tempi, la “Lumen fidei” consegna agli uomini del terzo millennio una riflessione globale sul tema della fede, sgorgata – caso forse più unico che raro nella storia della Chiesa – dalla mente e dal cuore di ben due pontefici, rispondendo alle tante domande (e obiezioni) della cultura moderna.

di Bartolo Salone

Sorprendente lo stile della “Lumen fidei”, la lettera enciclica sulla fede, scritta a quattro mani da Benedetto XVI e da papa Francesco (sebbene rechi soltanto la firma di quest’ultimo a motivo delle dimissioni frattanto presentate dal precedente pontefice): stile semplice, diretto, dialogico, con frequenti rimandi a pensatori, filosofi e letterati dell’età moderna e contemporanea. Uno stile comunicativo originale per i documenti del Magistero, inaugurato da papa Ratzinger (che nell’esporre punti di dottrina cristiana ha sempre ricercato il confronto con la cultura moderna) e che in papa Francesco trova invero una meravigliosa continuità di impostazione.

Così, nel presentare ai lettori il senso cristiano della fede, il primo confronto ad esser fatto è quello col filosofo Ludwig Wittgenstein. La fede – ci si domanda – ha a che vedere principalmente con l’amore o con la verità? Per il filosofo le due cose non possono stare insieme. Credere sarebbe simile, secondo lui, all’esperienza dell’innamoramento, concepita come qualcosa di soggettivo, improponibile come verità valida per tutti. Ma “davvero questa è una descrizione adeguata dell’amore?”, si domanda il Papa. “In realtà – continua l’Enciclica – l’amore non si può ridurre ad un sentimento che va e viene. Esso tocca sì la nostra affettività, ma per aprirla alla persona amata e iniziare così un cammino”. L’amore reca quindi con sé un’esigenza di “oggettività”, ha in sé una naturale tendenza ad uscir fuori da sé, per andare incontro agli altri e all’Altro: l’amore, in altri termini, lungi dal perdersi nei vari soggettivismi, vive in relazione alla verità che è nell’Altro, anzi che è l’Altro da sé. Senza verità non potrebbe esserci neppure l’amore. In questo senso “amor ipse notitia est”, l’amore – come scriveva san Gregorio Magno – è già in sé conoscenza, che si fa visione condivisa, “visione nella visione dell’altro”. La fede in definitiva può essere paragonata ad una porta aperta verso la verità, e l’amore alla sua serratura.

Proprio perché fondata sull’amore, la fede deve farsi visione comune, altrimenti contraddirebbe sé stessa. Non si può arrivare alla pienezza della conoscenza di Dio da soli, ma solo insieme ai nostri fratelli, chiamati nella fede a formare “un cuor solo e un’anima sola”. Da qui l’importanza, fin dai tempi dell’antico Israele, della figura del mediatore. Il popolo non può vedere il volto di Dio; è Mosè a parlare con YHWH sulla montagna e a riferire agli altri il volere del Signore. “Con questa presenza del mediatore, Israele ha imparato a camminare unito. L’atto di fede del singolo si inserisce in una comunità, nel ‘noi’ comune del popolo che, nella fede, è come un solo uomo”. La mediazione, già nell’Antico Testamento, “non è un ostacolo ma una apertura: nell’incontro con gli altri – sottolinea il Papa – lo sguardo si apre verso una verità più grande di noi stessi”. Ecco superata allora l’obiezione di un altro grande filosofo (Rousseau), il quale, lamentandosi della interposizione di molti uomini tra sé e Dio, osservava ironicamente: “E’ così semplice e naturale che Dio sia andato da Mosè per parlare a Jean-Jacques Rousseau?”. Noi cristiani, però, non intendiamo la mediazione alla stessa maniera in cui la intendevano gli Israeliti. Per noi, la vera e sola mediazione è attuata, in senso pieno, da Gesù Cristo, a motivo del fatto che egli solo riunisce in sé le caratteristiche dell’umanità e della divinità. La fede cristiana, pertanto, non è semplice adesione ad una idea, ma è fede in una persona speciale: nel Figlio di Dio, la fede stessa acquista allora un nome e un volto. Lungi dall’essere una conquista umana, viene offerta all’uomo come dono gratuito da custodire e far fruttificare. La verità cristiana, non essendo un’Idea (come tale attingibile dal puro intelletto), ma una Persona da scoprire e da accogliere nella concretezza di un evento, non chiude l’uomo in una autosufficiente intransigenza, ma al contrario “libera” da resistenze e preconcetti, rende umili, perché “più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede”.

Ma come essere sicuri di attingere al “vero Gesù” attraverso i secoli? Se l’uomo fosse un individuo “isolato” nel tempo e nello spazio, questo sarebbe ovviamente impossibile. Ma la persona è sempre in relazione, non solo sincronica ma anche diacronica; la persona è cioè in continua relazione non solo con i contemporanei, ma anche con coloro che l’hanno preceduta. La conoscenza della fede è allora possibile solo nella memoria di coloro che ci hanno preceduto. Ed è qui che subentra il ruolo della Chiesa! “Il passato della fede, quell’atto di amore di Gesù che ha generato nel mondo una nuova vita – si legge nell’Enciclica – ci arriva nella memoria di altri, dei testimoni, conservato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la Chiesa”. Senza la Chiesa la fede non potrebbe esistere neppure come “possibilità”: solo “attraverso la Tradizione apostolica conservata nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo, noi abbiamo un contatto vivo con la memoria fondante”. Solo grazie alla Chiesa, inoltre, si può avere una esperienza concreta e diretta con l’origine di quella memoria fondante, che è Gesù salvatore, nell’attualità della celebrazione dei Sacramenti. La fede è quindi memoria, insieme storica e sacramentale, della potenza di un Dio che si è fatto compagno di viaggio dell’uomo nel fluire della storia. Comprendiamo allora i pericoli di una fede intimistica, non sacramentale, come va di moda oggi, che prima o poi si riduce a qualcosa di puramente simbolico o, peggio, di ideologico: un idolo, una immagine fasulla della vera fede, che produce frutti esigui e di scarsa qualità! D’altro canto, però, dobbiamo essere consapevoli del fatto che, proprio in quanto via, la fede “riguarda anche la vita degli uomini che, pur non credendo, desiderano credere e non cessano di cercare”. Costoro “nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero e si mettono in cammino con quella luce che riescono a cogliere, già vivono, senza saperlo, nella strada della fede”: una fede “in fieri” che va allora accolta, rispettata nei tempi, nell’attesa che Dio la conduca a maturazione.

La fede, infine, non è un bene solo per il credente e la comunità ecclesiale, ma è anche un bene “sociale”, da coltivare cioè per la vita in società. Nella modernità si è cercato invero di costruire la fraternità universale degli uomini sopra un concetto formale, quello dell’uguaglianza. “A poco a poco però – si sottolinea nell’Enciclica – abbiamo compreso che questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere”. Solo attraverso la fede in Dio Padre, infatti, possiamo tutti riconoscerci come figli e capire le ragioni della “dignità unica della singola persona, che non era così evidente nel mondo antico”. Quando la fede viene meno, invece, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno, come ammonisce il poeta britannico T. S. Eliot, le cui incisive parole sono riprese dall’Enciclica: “Avete forse bisogno che vi dica che perfino quei modesti successi / che vi permettono di essere fieri di una società educata / difficilmente sopravviveranno alla fede a cui devono il loro significato?”. Parole che, fra l’altro, riecheggiano quelle più inquietanti di Gesù: “Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”. La fede è la vera sfida per l’umanità del nuovo millennio!


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