domenica, dicembre 08, 2013
Nel Vangelo di Luca si legge che al seguito di Gesù per città e villaggi, oltre agli apostoli, c’erano alcune donne che erano state guarite da lui. L’evangelista le cita per nome: Maria, chiamata Maddalena, Giovanna, Susanna, e molte altre. È proprio su queste “molte altre” che ci vogliamo soffermare, cercando di offrire un seppur limitato ventaglio di testimonianze di donne che, ancora oggi, seguono Gesù vivendo la loro vocazione. In questi primi giorni di Avvento e nel giorno della Solennità dell’Immacolata Concezione proponiamo la testimonianza di Flavia Marcacci, che con il marito Roberto Contu condivide l’esperienza familiare alla Casa della Tenerezza di Perugia.

di Monica Cardarelli

D - Nel Vangelo di Luca (Lc. 8, 1-3) tra le donne al seguito di Gesù è citata anche Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode. In che modo secondo te oggi una moglie e madre può essere discepola di Gesù?
R - Nella misura in cui vive la sua vocazione come un modo di stare accanto a Gesù, per fare sempre più spazio nella propria vita a Gesù. Essere mogli e madri non è una sorta di realtà naturale o sociale sulla quale poi “cala” la vita cristiana. Si può vivere la propria sponsalità e maternità proprio come risposta ad una chiamata di Dio: ognuno di noi vive il rapporto personale con Gesù e in questo rapporto gioca la propria vita. L'essere “cristiana” scaturisce da questo rapporto personale. Si può rispondere alla chiamata del Signore proprio scegliendo il matrimonio e aprendosi alla vita. In questa scelta e nella vita fatta di quotidianità, fatiche, gioie, di piccole e di grandi cose, una donna può acquisire confidenza con il volto di Cristo che è tenerezza, pazienza, affetto ma anche forza, tenacia, coraggio. La vita di una donna che è sposa e madre, così, diventa continuo rimando alla vita di Gesù, sia negli atti più semplici – dal lavoro domestico alla cura dei figli – sia nelle attività e responsabilità che le permettono di portare nel mondo la ricchezza della sua esperienza femminile – come il lavoro o le attività pastorali.
Questo nell'ottica di affiancare al rapporto personale con il Signore, il rapporto con il Signore come coppia. Camminando insieme nel matrimonio gli sposi diventano capaci di entrare in confidenza con Dio come coppia, di farlo sempre più parte della loro vita di coppia e con modalità nuove che poi plasmano e rinnovano la spiritualità di entrambi i coniugi.

D - L’accoglienza è forse un aspetto più tipicamente femminile che si esplicita nella maternità. Accoglienza dell’uomo, di un figlio e dell’azione di Dio nella tua vita. Come vivi la tua accoglienza di madre, moglie e figlia di Dio?
R - Come un dinamismo continuo e intenso da non potersi attuare senza il suo complemento: forza e decisione. Cercherò di spiegarmi meglio. È vero che ci sono nella donna quelle capacità e quell'istinto capaci di fare cose eroiche per i figli e per il suo sposo, ma anche per la sua famiglia di origine e per quella del marito. Una donna è davvero in grado di dimenticarsi, addirittura di annullarsi se in certi momenti questo serve per il bene di tutta la famiglia. Non solo: la donna ha l'intuito per cogliere particolari preziosi per capire la vita di chi ha accanto.
Riconosco e ho vissuto tutto questo, certamente, come sposa: cercando di aspettare e rispettare i tempi del mio sposo, di non pretendere che avesse le mie identiche visuali o sentimenti, di non forzarlo a fare ciò che a me sarebbe piaciuto facesse. Non c'è diversità più grande di quella tra un uomo e una donna, perché tutta la biologia spinge a ritmi di vita diversi e ad una percezione delle cose diversa. E la diversità richiede una accoglienza radicale che spesso viene più semplice alla donna, almeno inizialmente, per una sorta di richiamo “uterino” alla vita.
Ma è altrettanto vero che non c'è nulla di più reciproco di un uomo e una donna: la mia capacità di “fare a meno di me” avrebbe prodotto la mia stessa depressione se non ci fosse stato mio marito a mettere uno stop alla mia “accoglienza”, a sollecitarmi a riprendermi me stessa e a far fiorire quelle caratteristiche che in nome della famiglia avevo smesso di coltivare e che invece lo avevano fatto innamorare di me. In effetti la capacità che una donna ha di “accogliere” se non è vissuta cristianamente nell'equilibrio di un amore che sa donarsi e al contempo trattenersi può diventare addirittura negativa per la famiglia, e stabilire una sorta di sottili meccanismi di vittimismo. Per questo dico sempre che il fondamento della famiglia non è la “donna accogliente”, ma la “coppia accogliente”, i coniugi che accogliendosi l'una l'altro imparano ad accogliere la vita (dei figli e degli altri).
Il miracolo della coppia che si ama della tenerezza di Gesù è proprio questo apprendere il Vangelo nella vita del coniuge e mettersi davanti al Signore come coppia. Certamente quando questo è possibile, se c'è sintonia e intesa e soprattutto disponibilità da parte del marito. Ma comunque anche qui occorre stare attenti: se ad esempio c'è una coppia dove solo uno dei due ha desiderio di una vita spirituale più intensa, questo non significa che la coppia non può arrivare a vivere una grande sintonia e comunione, se c'è un forte affetto umano. Chi tra i due vive la fede più intensamente sarà chiamato a vivere la comunione con Cristo in una forma particolare e meno esplicita, che pian piano avvicinerà anche l'altro. Perché lo stile del Signore è questo: mai forzarci, ma rispettarci nella nostra libertà. Se imitiamo questo stile il Signore non tarderà ad arrivare al cuore dell'altro.
Altrettanto potrei dire dell'accoglienza dei figli. Proprio ieri sentivo dire a una giovane sposa “se dovessi starci a pensare, non sarebbe mai il momento di fare un figlio”. È vero. Aprirsi alla vita sembra spesso un ostacolo. Quando ho avuto i miei primi due figli era il peggior momento che potessi scegliere per il lavoro: vedevo tutti i miei colleghi coetanei che stavano “prendendo il volo”, avviando le loro carriere e facendo esperienze significative che io in quel momento rifiutai di fare. Non del tutto, però, perché riuscii con grandi sforzi e collaborazione di mio marito, a non rinunciare al mio sogno di fare ricerca e a conciliare quanto era almeno sostenibile.
Accogliere la vita mi ha richiesto un po' morire a me stessa, a volte anche ingiustamente solo per il fatto che viviamo in un paese dove la maternità è concepita come un impiccio e un affare privato. Così anche il terzo figlio è stata un'altra scommessa, visto che per motivi di salute non era molto opportuno averlo. Ma tutto questo è insito nell'aprirsi alla vita: sia nella forma della maternità che in altre forme. Fare spazio alla vita significa limitare i propri spazi. Poi però se ne riprendono di nuovi e si scoprono pezzi di mondo che non immaginavi. Non c'è busta paga che tenga di fronte al sorriso di un figlio la sera a tavola, o di fronte a una bella domenica passata tutti insieme!
Vivo ora questa ricchezza come un dono immenso di Dio. Sebbene la fatica sia tanta, e per sostenerla deve essere radicale l'appartenenza a Cristo che dà il sollievo spirituale e la serenità necessaria.
Vengo così al terzo punto: l'accoglienza come figlia di Dio. Il sentirmi figlia di Dio, amata da Lui e custodita, mi ha consentito di abbandonare quello stile da “crocerossina” (insopportabile a mio marito!) con cui ho iniziato a vivere la mia vocazione alla famiglia. Non sono io che salvo la mia famiglia, ma è il Signore. Io non potrei salvare nessuno...figuriamoci! Così ho capito che la radice e la possibilità stessa della mia capacità di accogliere è proprio nel lasciarmi accogliere dal Signore: accolgo l'altro nella misura in cui mi sento nelle braccia di Dio. E quando sto in quelle braccia imparo ad accogliere me stessa, sia negli aspetti di me stessa che non mi piacciono sia nella custodia delle mie energie.

D - Con tuo marito avete fatto un passo ulteriore dopo il matrimonio, quello della Casa della Tenerezza. Ce ne vuoi parlare e spiegare agli amici de La Perfetta Letizia in che misura questa scelta ha cambiato la vostra vita di coppia, di famiglia e di persone?
R - Certamente. Abbiamo sempre sentito, anche prima di sposarci, la chiamata a vivere la dimensione della famiglia tra altre famiglie. Abbiamo fatto un discernimento per capire dove questo ci portava, attenti a non snaturare la priorità della nostra chiamata di sposi. Quando abbiamo conosciuto la Casa della Tenerezza il progetto stava prendendo vita, ed era praticamente ancora molto nella testa del suo fondatore, mons. Carlo Rocchetta. Eravamo nove coppie e tuttora lo siamo. Molto diverse e con desideri diversi. Rispetto agli altri noi sentivamo molto meno l'urgenza di metterci al servizio della famiglia, ma volevamo avvicinarci un po' meglio al mistero della nostra vocazione. Nel mentre stavano partendo tutte le attività della Casa: prima di tutte il servizio di cura e accompagnamento delle coppie in crisi, poi la formazione di sposi e fidanzati fino alla custodia dei separati e dei divorziati e dei single. Tutto il mondo dell'affettività ferita e dell'affettività da far crescere e rendere vigorosa era l'intento del nostro servizio. In questo modo mio marito Roberto ed io abbiamo iniziato ad affiancare don Carlo nei percorsi delle giovani coppie di sposi. Eravamo giovani anche noi – 12 anni fa!- e ci sentivamo impreparati alle difficoltà di un figlio, di un mutuo, e tante altre cose. Abbiamo incontrato tante bellissime coppie in questi anni, visto tanti miracoli di comunione che ci hanno reso consapevoli della grandezza della chiamata al matrimonio.
Contemporaneamente la vita comunitaria, vissuta da tutti nel rispetto delle vocazioni al matrimonio per le coppie o alla vita consacrata per don Carlo e per le due consacrate laiche che sono con noi. La vita comunitaria fin dall'inizio aveva momenti di condivisione e di spiritualità, di formazione e di convivialità, e diventava sempre più intensa. L'incontro con altre famiglie è diventato il luogo dove abbiamo spesso capito come cedere il passo al Signore nel nostro cuore. È fatica camminare insieme quando si vedono le cose diversamente e si farebbero diversamente. Ma è una grazia immensa raccogliere poi il sapore del “vino nuovo” che nasce dall'incontro con l'altro, il sentirsi dentro l'avventura della vita cristiana insieme ad altri con cui condividiamo Gesù.
È bellissima l'esperienza di fratellanza che si sperimenta nei momenti più difficili, e a turno ogni coppia, ogni fratello, ogni sorella della comunità ha avuto momenti faticosi. Per non parlare dei figli, che vivono la comunità come una grande famiglia, fatta di tanti altri fratelli: ora abbiamo 30 figli dagli 0 ai 20 anni in comunità. Certo non ci annoiamo né manca l'allegria!
Si, la vita comunitaria – come diceva lei – ci ha cambiato come famiglia e come persone: ma arricchendoci e non togliendo nulla di ciò che è importante.

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