sabato, ottobre 26, 2013
Grande successo di pubblico al Teatro Quirino di Roma per l’”Avaro” di Molière interpretato dall’attore napoletano, con la bella regia di Claudio Di Palma

Città Nuova - Il "vecchio" Molière si mostra sempre più "nostro contemporaneo". Sono tanti, i temi, gli spunti, le analisi taglienti che l’Avaro fa della nostra società. Nella nitida, scorrevole lettura di Claudio Di Palma, la commedia è un affresco efficace del nostro mondo intimamente corrotto, oltre che del rapporto padri-figli, o meglio vecchi-giovani. Se ci si fermasse alla prima, facile lettura, si tratterebbe della storia di un paranoico, malato di possesso. In realtà lo spessore complesso della commedia di Jean Baptiste Poquelin, rivela il lato oscuro, la favola nera, il contraltare cupo, malato, morboso.

C’è una battuta di Arpagone che fa riferimento all’atto di sedersi, invito rivolto dall’anziano avaro ai due figli nel momento in cui vuole annunciare loro l’intenzione di sposare la giovane Mariana (che è poi la ragazza segretamente amata dal figlio). I due si guardano intorno, non vedono nessuna sedia, e rimangono in piedi. Di una moltitudine di sedie, d’epoca e stili, è invece costellata la casa nelle tre pareti della scena, ma tutte rigorosamente custodite dentro teche di vetro. Sono il simbolo della sua ricchezza e della sua avarizia: una collezione preziosa protetta e in mostra, che tutti possono ammirare, ma alla quale nessuno può accedere. Il resto della casa è vuoto. Inutile qualsiasi altro oggetto. Con questa bella intuizione, anche visiva, il regista Di Palma ha ideato la sua messinscena dell’Avaro di Molière con protagonista Lello Arena, sprofondato di frequente, perché impigrito, su una sedia a rotelle sulla quale si fa spostare dal malcapitato di turno a lui vicino.

L’atmosfera è quella di una costante penombra solo a tratti rischiarata. La scena s’illumina quando lui, il protagonista, appare; mentre si rabbuia, quando è animata dagli altri personaggi, quando cioè sono in atto complotti e sotterfugi per i propri tornaconti. “Figura consapevole e sinceramente reo-confessa, pervasa, in fondo, da una profonda onestà intellettuale”: così asserisce il regista volendo evidenziare, da subito, la dichiarata tircheria di Arpagone, la trasparenza del suo vizio, come se l’onesto fosse lui in un mondo di corrotti, di arrivisti, di approfittatori occulti, di falsi sensali. La fatidica cassetta di denari, simbolo ossessivo della bramosia del possesso, c’è sempre, anche se non la vediamo. Quando Arpagone ne parla s’illumina una delle teche in alto dove, forse, è custodita segretamente. E combatte e si dimena col bastone in mano quando avverte il pericolo di intrusi pronti a minacciarla.

Il noto apologo che vede nell’eccessiva passione per il denaro, nel piacere quasi fisico dell’usura, una sorta di compensazione all’impossibilità di amare, è noto. Il nullafacente personaggio vive accumulando quattrini, da avaro puro che si esercita da strozzino maldestro. In più, e senza passione, coltiva disperatamente un desiderio sbagliato e s’innamora di Mariana, che gli preferirà naturalmente l’amore del figlio, così come Valerio, il suo ambiguo intendente, gli preferirà la figlia Elisa.

Di Palma ha costruito un Avaro di piacevole resa attorno ad un interprete popolare quale è Lello Arena. L’attore, che crea una figura sgradevole e, allo stesso tempo, commiserevole, eccede però nel macchiettismo, nel facile umorismo, ma d’altronde è la sua cifra attorale che il pubblico ama, che non lo priva di una contagiosa inspiegabile simpatia. Manca lo stralunamento di una follia che metta paura, la grinta di una vera cattiveria. Forse sarebbe da trovare un maggiore equilibrio fra i toni comico-ripugnanti della passione maniacale (l’avarizia, appunto) che domina il personaggio e quelli sbigottiti e sgomenti cui lo induce la sua meritata, ma non per questo meno terribile, solitudine, il suo sentirsi circondato e braccato dalle legittime, certo, ma a loro volta egoistiche e feroci pretese altrui: dei figli che lo vorrebbero morto, dei servi che si fanno beffe di lui, della giovane donna che risponde con il ribrezzo al suo desiderio.

Il finale, con le agnizioni che permettono di risolvere le cose scoprendosi tutti parenti, si svolge nell’assoluto (troppo) immobilismo declamatorio di tutti i personaggi dentro le teche, quali apparizioni spettrali di quello che, capiamo, essere stato l’incubo di Arpagone, i fantasmi della sua psiche. E l’emblematica scena della ritrovata cassetta rubata si risolve velocemente con la sua caduta a terra. Lo spettacolo funziona ugualmente grazie anche a un valido gruppo di giovani attori. Tra le ottime individualità – con qualche perplessità sul versante femminile – tra cui una frizzante Giovanna Mangiù nei panni della “mediatrice” Frosina, nel quartetto dei giovani amorosi spiccano il ragionatore Valerio di Francesco Di Trio e l’impetuoso Cleonte di Fabrizio Vona.

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