sabato, settembre 14, 2013
Da una tragedia del passato un monito per l’uomo di oggi, ancora alla ricerca di un giusto rapporto con la natura

Città Nuova - Oggi Galveston, città dello Stato del Texas situata nell’isola omonima del Golfo del Messico, è una meta turistica rinomata: non grandissima (contava nel 2007 circa 60 mila abitanti), è dotata infatti di cinquanta chilometri di spiagge, di venti gallerie d’arte e quattordici musei, tra cui uno dell’aviazione (il Lone Star Flight Museum) e uno navale (il Texas Seaport Museum), oltre a numerose abitazioni storiche e ville imponenti. Ma a me, che non ci sono mai stato, Galveston è diventata familiare dopo la lettura di un libro che ricostruisce un evento del passato, a causa del quale questa città statunitense ha rischiato di scomparire dalla faccia della terra; un evento in cui la natura ha espresso tutta la sua potenza distruttiva: un tifone, fenomeno la cui origine è così imponderabile che – è stato detto – per assurdo basterebbe il battito delle ali di una farfalla per innescare il processo attraverso cui si genera una calamità naturale di questo tipo.

Se questo è vero oggi pur con tutti i progressi fatti dalla meteorologia, lo era ancor più ai primi del Novecento, quando questa scienza era ancora agli inizi. E tuttavia in quel fatale settembre 1900 Isaac Cline, l’ineccepibile capo della stazione meteorologica di Galveston, confidando nelle sue futuristiche strumentazioni, era sicuro che la tempesta segnalata nel Golfo del Messico non avrebbe toccato quella prospera cittadina.

L’errore costò la vita a oltre seimila persone, se non diecimila, travolte da uno dei più terribili uragani della storia. Lui stesso perse la moglie incinta in quella catastrofe e, pur considerato un eroe da molti, passò i successivi cinquant’anni della sua vita a giustificare il proprio comportamento.

Erik Larson, scrittore e giornalista del Time, ha ricostruito questa vicenda ne Il tifone di Galveston senza calcare il pedale emotivo, lasciando parlare i fatti. Partendo dalle lettere, dai telegrammi e dai rapporti di Cline, oltre che dai resoconti dei superstiti, dai giornali dell’epoca e da una miriade di fonti consultate puntigliosamente, egli proietta il lettore con straordinaria immediatezza nella vita quotidiana della cittadina texana e, in un crescendo emozionante, nella sua apocalisse.

E ciò guidandolo contemporaneamente nell’evolversi misterioso di un’insignificante perturbazione che dalle coste occidentali dell’Africa ha attraversato l’Atlantico per poi abbattersi con incredibile violenza sul continente americano.

Il libro non è corredato da foto d’epoca, che pure abbondano. Ma tale è l’abilità descrittiva di Larson da rendere al vivo, quasi le vedessimo in un film, le spaventose sequenze in cui Galveston è investita dal novello diluvio. Forse però i momenti più densi di tensione sono quelli che lo precedono, quando cioè le vie cominciano ad essere invase dalle acque e i bambini vi sguazzano felici come in un nuovo gioco, sotto gli occhi degli adulti che, quasi indifferenti, continuano le solite occupazioni, tanto – li ha rassicurati la stazione meteorologica – «non si corre alcun pericolo»: non sembra di rivivere in anteprima certe scene famose della tragedia del Titanic, considerato inaffondabile?

C’è insomma di che riflettere sull’imprevidenza e l’orgoglio umani e sui limiti della scienza quando s’illude di prevedere il comportamento della natura. E il testo esemplare di Larson offre più di uno spunto al riguardo.

Ma questo è accaduto 113 anni or sono. Oggi siamo più attrezzati per far fronte a certi eventi distruttivi, per cui il turista che voglia recarsi a Galveston per godersi le sue spiagge di sogno e le sue attrattive storico-culturali può tranquillamente andarci.

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