domenica, settembre 08, 2013
Un’istantanea dell’isola a bordo di una Mehari

di Mariangela Laviano

Ormai da tempo Lampedusa è sotto la luce dei riflettori mediatici, vuoi per i continui soccorsi dei migranti, vuoi per il recente avvicendarsi di grandi personalità giunte per rilanciare l’immagine dell’isola; tuttavia ciò che veramente ti colpisce trascorrendo qualche giorno qui va al di là delle immagini ricorrenti e stereotipate, essendo preminenti, invece, gli umori contrastanti e altalenanti dei lampedusani. Il modo migliore per scambiare qualche chiacchiera con gli abitanti e di conseguenza prendere confidenza con Lampedusa è rappresentato dalla Mehari, una 2 cavalli Citroen che ha avuto la sua fortuna negli anni ’70: con questo mezzo è possibile muoversi facilmente sulle accidentate strade e raggiungere senza problemi le cale dell’isola.

Abbiamo avuto modo di scambiare alcune impressioni con gli isolani e subito si apre un mondo, ti accorgi che se per un verso la maggior parte di loro è orgogliosa della solidarietà mostrata ai naufraghi in mare, in nome dell’antica tradizione delle comunità marinare per cui chi viene dal mare va sempre accolto e soccorso in caso di bisogno, per l’altro ti sorprendono quando, anziché chiamarli “migranti”, li definiscono tout court “clandestini” o ancora meglio “turchi”. I due appellativi, invero, si spiegano agevolmente pensando per un aspetto alla costante e imprecisa campagna di stampa che definisce tutti i “migranti” come “clandestini”, e per l’altro tornando romanticamente alla più antica tradizione medievale e rinascimentale, e in particolare al repertorio epico-cavalleresco tramandato dai cantastorie e dall’Opera dei Pupi, in cui con il termine “turchi” si definivano i musulmani invasori, per distinguerli dalla popolazione locale, al contrario di fede cristiana.

E a proposito di storie, ce n’è una particolarmente interessante, secondo la quale nel Vallone di Cala Madonna, non molto distante dal Santuario della Madonna di Porto Salvo, esisteva un antico eremitaggio, forse di origine islamica, al quale successivamente si affiancò il culto della Vergine Maria che rese famosa Lampedusa presso i numerosi viaggiatori. Si narra che in questo luogo di preghiera viveva un eremita il quale, per salvarsi la pelle all’arrivo dei diversi viaggiatori spesso di fedi diverse, divise in due parti una grotta naturale, incidendo da un alto la mezzaluna e dell’altra la croce. Quando arrivavano i turchi, quindi i musulmani, l’eremita apriva la grotta con la mezzaluna e lì i fedeli si fermavano a pregare secondo la loro religione, se invece da quelle parti giungevano i cristiani l’eremita apriva la grotta con incisa la croce, così che i viaggiatori potevano fermarsi a venerare l’immagine della Madonna.

Al di là del puro opportunismo dell’eremita, questa immagine evoca un vero tentativo di apertura culturale e religiosa che si respirava allora, non solo a Lampedusa ma in tutto il Mediterraneo: oggi questo tentativo lo chiameremmo incontro interculturale tra la sponda Sud e la sponda Nord del Mediterraneo. Ed è questo forse il significato più profondo dell’isola di Lampedusa, “l’isola che salva” ma anche l’isola che unisce.


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