A Tozeur e Nefta, Tunisia. Le meraviglie di un sistema di vita, frutto di sapienza millenaria, che ha molto da insegnarci per il nostro futuro
Città Nuova - Trasportiamoci, se non fisicamente, almeno idealmente alle porte del Sahara, sul lato settentrionale del Chott el-Jerid (Tunisia). Qui, immerse nel silenzio delle dune sabbiose, scopriamo le lussureggianti oasi di Tozeur e Nefta, antiche città carovaniere: la prima offre lo spettacolo di ben duecento sorgenti zampillanti; la seconda, legata alle confraternite mistiche del sufismo, quello di ventiquattro moschee. Entrambe sono celebri per i loro palmeti: almeno un centinaio, infatti, sono le varietà di palme che vi prosperano, festeggiate ogni anno, da ottobre a dicembre, al momento della raccolta dei datteri, considerati i migliori del mondo, e la cui regina incontrastata è la qualità deglet ennour.
Ad aggirarsi all’ombra di questi superbi esemplari della flora (ma non mancano piante di melograno, fichi e banani, insieme ad una profusione di fiori), nasce spontanea una parola alle labbra: Eden!
In tale idilliaco contesto vengono opportune alcune considerazioni, da parte noi occidentali: esiste, in questo nostro mondo sempre più assillato dal problema ecologico qualche modello atto a suggerire soluzioni utili alla sopravvivenza del pianeta? Sì, uno esiste, e ci viene proprio dall’oasi, nicchia di vita e di fertilità in un mondo ostile, sintesi di natura e cultura, allegoria del paradiso terrestre; paradiso di cui sempre più l’uomo avverte la nostalgia, man mano che la distanza fra lui e la natura va aumentando.
Descritta da Strabone come «isola nel mare aperto» del Sahara, l’oasi è l’espressione più tipica di questa plaga che ha rappresentato, lungo i millenni, una continua sfida ai limiti umani, probabile luogo d’origine della domesticazione animale e delle prime coltivazioni, dove sono confluiti popoli esuli ed hanno cercato rifugio e pace ribelli, santi e filosofi.
Tutt’altro che evento casuale e spontaneo, l’oasi nasce dall’ingegno e dalla tenacia dell’uomo che – mediante possenti lavori idraulici, l’impianto di colture e la costruzione di apposite architetture – ha saputo rendere abitabile e produttivo un ambiente assolutamente arido.
In realtà il sottosuolo del Sahara è una vera e propria “miniera d’acqua”, che un’immensa rete di gallerie drenanti chiamate foggara, scavate dall’uomo nell’arco di più millenni e tuttora in uso, riesce a captare e a convogliare alla superficie per le necessità vitali degli abitanti delle oasi e delle loro coltivazioni.
Il prezioso liquido così raccolto viene distribuito nella quantità spettante a ciascun proprietario di orto grazie ad un geniale sistema di canalizzazioni a cielo aperto, disciplinato dai cosiddetti “maestri dell’acqua”. Elementi tipici di tale sistema sono le kesria, dispositivi di pietra a forma di pettine.
Chi è estraneo alla cultura sahariana può sentirsi disorientato dalla complessa articolazione di canalizzazioni, di stradine buie e coperte che solcano la compattezza dell’abitato oasiano, come di fronte ad un mistero. In realtà in questo apparente caos il minimo elemento rientra in un progetto finalizzato alla vita.
Terra, acqua, luce, vegetazione compongono qui una architettura globale dove tutto interagisce con tutto. La protezione costituita dal tetto vegetale delle palme, ad esempio, consente di coltivare ad un livello inferiore gli alberi da frutto; le une e gli altri poi fanno da scudo agli ortaggi. È la forma più diffusa di agricoltura oasiana, detta “a tre livelli” e già descritta da Plinio.
Ma non si tratta solo di campi coltivati e di sistemi di irrigazione: un unico linguaggio lega, nelle oasi, anche la trama dei tappeti, le decorazioni sulle ceramiche e sulle pareti, le stesse acconciature femminili. Un linguaggio di essenzialità, che si traduce in emozione estetica.
Tutto qui appare “costruito”, tenacemente voluto, sempre però nel pieno rispetto della natura. Ed è in questo che l’oasi può essere fonte inesauribile di insegnamenti per l’uomo di oggi.
Tentativi, in passato, di “migliorare” la resa agricola delle oasi interrando la rete delle canalizzazioni superficiali dei giardini per evitare lo “spreco” di acqua dovuta alla forte evaporazione non hanno avuto seguito: allo spreco in realtà corrisponde il vantaggio di un microclima, così ottenuto, fondamentale per l’esistenza stessa dell’oasi. È proprio vero che non si può ritoccare un miracolo, col rischio di alterare il mirabile equilibrio frutto di una sapienza di millenni!
«La civiltà contemporanea – sostiene in proposito l’architetto e urbanista Pietro Laureano – non potrà continuare per lungo tempo nella sua irresponsabile e catastrofica attività di spreco delle risorse e di spregio dell’ambiente… Ogni più piccola parte del pianeta avrà, un giorno, un valore inestimabile, affidato alla custodia di ognuno, e allora si comprenderà la lezione delle civiltà e culture arcaiche consapevoli della labilità degli equilibri necessari alla sopravvivenza comune».
Città Nuova - Trasportiamoci, se non fisicamente, almeno idealmente alle porte del Sahara, sul lato settentrionale del Chott el-Jerid (Tunisia). Qui, immerse nel silenzio delle dune sabbiose, scopriamo le lussureggianti oasi di Tozeur e Nefta, antiche città carovaniere: la prima offre lo spettacolo di ben duecento sorgenti zampillanti; la seconda, legata alle confraternite mistiche del sufismo, quello di ventiquattro moschee. Entrambe sono celebri per i loro palmeti: almeno un centinaio, infatti, sono le varietà di palme che vi prosperano, festeggiate ogni anno, da ottobre a dicembre, al momento della raccolta dei datteri, considerati i migliori del mondo, e la cui regina incontrastata è la qualità deglet ennour.Ad aggirarsi all’ombra di questi superbi esemplari della flora (ma non mancano piante di melograno, fichi e banani, insieme ad una profusione di fiori), nasce spontanea una parola alle labbra: Eden!
In tale idilliaco contesto vengono opportune alcune considerazioni, da parte noi occidentali: esiste, in questo nostro mondo sempre più assillato dal problema ecologico qualche modello atto a suggerire soluzioni utili alla sopravvivenza del pianeta? Sì, uno esiste, e ci viene proprio dall’oasi, nicchia di vita e di fertilità in un mondo ostile, sintesi di natura e cultura, allegoria del paradiso terrestre; paradiso di cui sempre più l’uomo avverte la nostalgia, man mano che la distanza fra lui e la natura va aumentando.
Descritta da Strabone come «isola nel mare aperto» del Sahara, l’oasi è l’espressione più tipica di questa plaga che ha rappresentato, lungo i millenni, una continua sfida ai limiti umani, probabile luogo d’origine della domesticazione animale e delle prime coltivazioni, dove sono confluiti popoli esuli ed hanno cercato rifugio e pace ribelli, santi e filosofi.
Tutt’altro che evento casuale e spontaneo, l’oasi nasce dall’ingegno e dalla tenacia dell’uomo che – mediante possenti lavori idraulici, l’impianto di colture e la costruzione di apposite architetture – ha saputo rendere abitabile e produttivo un ambiente assolutamente arido.
In realtà il sottosuolo del Sahara è una vera e propria “miniera d’acqua”, che un’immensa rete di gallerie drenanti chiamate foggara, scavate dall’uomo nell’arco di più millenni e tuttora in uso, riesce a captare e a convogliare alla superficie per le necessità vitali degli abitanti delle oasi e delle loro coltivazioni.
Il prezioso liquido così raccolto viene distribuito nella quantità spettante a ciascun proprietario di orto grazie ad un geniale sistema di canalizzazioni a cielo aperto, disciplinato dai cosiddetti “maestri dell’acqua”. Elementi tipici di tale sistema sono le kesria, dispositivi di pietra a forma di pettine.
Chi è estraneo alla cultura sahariana può sentirsi disorientato dalla complessa articolazione di canalizzazioni, di stradine buie e coperte che solcano la compattezza dell’abitato oasiano, come di fronte ad un mistero. In realtà in questo apparente caos il minimo elemento rientra in un progetto finalizzato alla vita.
Terra, acqua, luce, vegetazione compongono qui una architettura globale dove tutto interagisce con tutto. La protezione costituita dal tetto vegetale delle palme, ad esempio, consente di coltivare ad un livello inferiore gli alberi da frutto; le une e gli altri poi fanno da scudo agli ortaggi. È la forma più diffusa di agricoltura oasiana, detta “a tre livelli” e già descritta da Plinio.
Ma non si tratta solo di campi coltivati e di sistemi di irrigazione: un unico linguaggio lega, nelle oasi, anche la trama dei tappeti, le decorazioni sulle ceramiche e sulle pareti, le stesse acconciature femminili. Un linguaggio di essenzialità, che si traduce in emozione estetica.
Tutto qui appare “costruito”, tenacemente voluto, sempre però nel pieno rispetto della natura. Ed è in questo che l’oasi può essere fonte inesauribile di insegnamenti per l’uomo di oggi.
Tentativi, in passato, di “migliorare” la resa agricola delle oasi interrando la rete delle canalizzazioni superficiali dei giardini per evitare lo “spreco” di acqua dovuta alla forte evaporazione non hanno avuto seguito: allo spreco in realtà corrisponde il vantaggio di un microclima, così ottenuto, fondamentale per l’esistenza stessa dell’oasi. È proprio vero che non si può ritoccare un miracolo, col rischio di alterare il mirabile equilibrio frutto di una sapienza di millenni!
«La civiltà contemporanea – sostiene in proposito l’architetto e urbanista Pietro Laureano – non potrà continuare per lungo tempo nella sua irresponsabile e catastrofica attività di spreco delle risorse e di spregio dell’ambiente… Ogni più piccola parte del pianeta avrà, un giorno, un valore inestimabile, affidato alla custodia di ognuno, e allora si comprenderà la lezione delle civiltà e culture arcaiche consapevoli della labilità degli equilibri necessari alla sopravvivenza comune».
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