domenica, luglio 14, 2013
Nell’opporsi al sesso prima (o fuori) del matrimonio, la Chiesa ricorda al mondo che la sessualità umana si attua in pienezza nel matrimonio. Ripensare la relazione tra sessualità e matrimonio alla luce della tradizione cristiana è la vera sfida culturale del nuovo secolo.

di Bartolo Salone

Si osserva comunemente come la cultura moderna, post-cristiana, tenda a scindere, quasi a voler “emancipare”, l’esperienza della sessualità dal matrimonio, ritenendo non solo possibile ma addirittura lecito e in certi casi auspicabile l’esercizio della facoltà sessuale al di fuori della relazione matrimoniale, unica ed esclusiva, tra un uomo e una donna. Questa mentalità, espressione coerente della fin troppo decantata “rivoluzione sessuale” dei primi anni ‘70, sta provocando sul piano sociale e della morale familiare degli autentici disastri che sono sotto gli occhi di tutti: rinvio a tempo indeterminato delle nozze e incremento del tasso di dissolubilità matrimoniale e del numero delle unioni di fatto rispetto ai matrimoni. Non sempre viene colto dall’opinione pubblica che alla base di questi fenomeni vi è una visione estremamente riduttiva dell’istituto matrimoniale, concepito non di rado come una semplice formalità, non indispensabile per la riuscita di un felice rapporto di coppia e per l’instaurazione di una comunità di vita familiare. Una tale visione, puramente formale e legalistica, si sta rivelando esiziale per la sopravvivenza stessa dell’istituto matrimoniale, e impone pertanto di ripensare il rapporto tra matrimonio e sessualità in termini di connessione reciproca piuttosto che di assoluta autonomia. La tradizione cristiana offre da questo punto di vista importanti spunti di riflessione, che adesso, dopo il clamoroso fallimento delle promesse di libertà e felicità legate ai miti della “rivoluzione sessuale”, sarà bene tornare ad approfondire.

L’insegnamento della Chiesa, come si è visto, rifiutandosi di ridurre l’esperienza dell’intimità sessuale all’aspetto, puramente edonistico, della ricerca egoistica del piacere, ne coglie in profondità le diverse dimensioni, armonizzandole in una visione unitaria e coerente con il complesso dei valori da cui dipende lo sviluppo integrale della persona umana. In sintesi, si è visto come l’atto sessuale nella morale cattolica risponda fondamentalmente ad una duplice finalità, unitiva e procreativa, in quanto segno e al contempo strumento di attuazione di una stabile e duratura comunione interpersonale, caratterizzata da un lato dall’amore e dalla mutua donazione e dall’altro dall’apertura alla vita e dall’accoglienza dei figli. I due “valori” dell’amore e della fecondità in questa prospettiva non sono in opposizione ma si integrano vicendevolmente. L’amore vero, infatti, è per definizione fecondo (e la fecondità assume nell’esperienza umana un significato che va al di là della sfera biologica, implicando anche la cura e l’educazione della prole): un amore chiuso in sé stesso, invece, sarebbe illusorio, un modo per mascherare sostanzialmente una forma di egoismo “di coppia”.

Questa visione così ricca e complessa della sessualità conduce quasi naturalmente alla considerazione del matrimonio quale luogo esclusivo in cui può ammettersi l’esercizio della sessualità. Al di fuori del matrimonio, infatti, l’esercizio della sessualità non realizza le finalità che le sono connaturali o le realizza in maniera imperfetta. Per questo il magistero ecclesiale da sempre condanna le relazioni pre o extra matrimoniali, reputando non legittima l’unione carnale se tra l’uomo e la donna non si è instaurata una definitiva comunità di vita fondata su un consenso irrevocabile, esternamente manifestato e sancito e riconosciuto dalla società (definito per l’appunto “matrimoniale”). Come illustrato con estrema efficacia e realismo dalla Congregazione per la dottrina della fede, “il più delle volte accade infatti che le relazioni prematrimoniali escludono la prospettiva della prole. Ciò che viene presentato come un amore [de facto, n. d. A.] coniugale non potrà, come dovrebbe essere, espandersi in un amore paterno e materno; oppure, se questo avviene, risulterà a detrimento della prole, che sarà privata dell’ambiente stabile nel quale dovrebbe svilupparsi per poter in esso trovare la via e i mezzi per il suo inserimento nell’insieme della società” (Dichiarazione “Persona humana. Alcune questioni di etica sessuale” del 1975).

Inoltre, solo se tra due persone si è instaurata, in virtù del patto coniugale, una definitiva e stabile comunità di vita, l’unione sessuale assume realmente e in profondità quel valore di mutua e totale donazione nell’amore, che è il fine primario cui la sessualità umana in effetti tende. L’amore, nel matrimonio, acquista così una dimensione che trascende, pur senza rinnegarla, quella del puro sentimento, per tradursi in impegno di vita, vincolante non solo sul piano morale, ma anche su quello giuridico. Il matrimonio, pertanto, a differenza di quel che accade nelle unioni cosiddette “libere”, presuppone una maturità affettiva capace di comprendere e di valorizzare la dimensione dell’impegno come costitutiva dell’amore. Rinviare l’esperienza dell’intimità sessuale al momento del matrimonio, secondo il costante insegnamento della Chiesa, significa allora per il cristiano dare testimonianza della specificità e della sovreminenza del matrimonio rispetto ad altre forme di unione affettivo-sessuale che ne condividono solo in parte i caratteri. E, nel riproporre all’uomo di oggi l’ideale della continenza da mantenere fino al giorno delle nozze, la Chiesa non fa altro che difendere la verità integrale dell’amore umano e della sessualità, che solo all’interno del matrimonio può esprimersi nella varietà e ricchezza dei suoi molteplici significati.


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