venerdì, maggio 17, 2013
Dalla morte alla speranza, anche in terra di camorra. Dove l’esempio di imprenditori coraggiosi, uccisi dai clan, ha portato altri a denunciare.

Liberainformazione - «Sono trascorsi 5 anni dall’assassinio di mio padre Domenico Noviello, grido forte il suo nome affinché rimbombi e arrivi chiaro e deciso a tutti, così come era lui, chiaro e deciso». Parla diretto Massimo, figlio dell’imprenditore ucciso dalla camorra il 16 maggio 2008 per aver denunciato sette anni prima un tentativo di estorsione. Colpito perché troppo solo. Ma ora sono sempre di più gli imprenditori che denunciano. Nel suo nome. Parla Massimo, «soprattutto a quelli che non vorrebbero sentirlo il suo nome, a quelli per i quali Domenico Noviello rappresentava un problema. Oggi invece rappresenta tutti quelli che non ci stanno, tutti quelli che preferiscono morire piuttosto che piegarsi». Davanti a lui, in prima fila, due persone applaudono convinte. Poi lo vanno ad abbracciare. Sono due imprenditori (non facciamo i nomi per tutelarli) di Casapesenna, feudo di Michele Zagaria, “issu”, il boss dei “casalesi”, l’ultimo dei grandi latitanti, catturato l’8 dicembre 2011. «Noviello lo conoscevamo bene, l’avevamo incontrato pochi giorni prima – ricordano -. La sua morte era un messaggio per tutti noi imprenditori: dovevamo continuare a pagare. Ma quando lo hanno ucciso si è rotto qualcosa».

Un sistema che funzionava perfettamente: 15mila euro di “pizzo” a Pasqua, Ferragosto e Natale. «Pagavamo tutti, per paura, per codardia. Facevi l’imprenditore e già sapevi che dovevi pagare. Ci avevano insegnato che è meglio sentire il rumore dei cancelli del carcere che il suono delle campane a morto». Pagare «per stare tranquilli, quella era la regola». Ma, ammettono, «abbiano sbagliato: i camorristi, Zagaria e i suoi, sono cresciuti per la nostra codardia».

Ma poi arriva quell’8 dicembre. «Abbiamo festeggiato, pensavamo fosse tutto finito. Invece dopo poche settimane sono venuti a dirci che non era cambiato niente. Camorristi di settima fila. Ma non potevamo correre il rischio che i loro “stuzzicadenti” si trasformassero in cannoni grazie a nostri soldi. Così non solo non abbiamo pagato ma siamo andati a denunciare». Sostenuti dalla Federazione antiracket. Sono così scattate inchieste e arresti che hanno ulteriormente colpito il clan. «In un primo tempo in piazza ci schivavano. Oggi c’è solidarietà. Prima eravamo vigliacchi e oggi no. Ci rispettano».

E anche altri hanno denunciato, ormai più di venti. «Ora sono i camorristi ad avere paura. Sanno che se ci minacciano andiamo subito a denunciare». Una scelta convinta. «Mi sento finalmente libero, sono straconvinto di quello che ho fatto. Anzi la mia azienda è anche cresciuta perché non paghiamo e lavoriamo di più». Ma, aggiunge, «l’unico timore è per miei figli. E anche noi abbiamo paura. Forze dell’ordine e magistratura è giusto che indaghino e se ho sbagliato è giusto che paghi. Ma devono darci fiducia». «Non ci sentiamo protetti. Non posso correre il rischio che tra qualche hanno dicano “era una brava persona”». Però insistono: «Dopo i successi del “modello casertano” della repressione era nostro dovere, verso i nostri figli, per riscattare il territorio. Ma abbiamo vinto solo una battaglia non la guerra. Non vediamo l’ora di uscire allo scoperto, scendere in piazza coi cartelloni e fare anche a Casapesenna un’associazione antiracket».

Intanto vanno nelle scuole a dire che «il vero coraggio è quello di chi va a denunciare». Come il loro amico Mimmo Noviello. Una risposta convinta arriva dal prefetto Elisabetta Belgiorno, commissario di governo per la lotta al racket e all’usura. «Qua finalmente si è capito che il pizzo non è un normale costo di esercizio per restare e operare sul territorio». Ora però, «bisogna accelerare le procedure per sostenere gli imprenditori che denunciano, bisogna svegliare la grigia burocrazia di “palazzo”». Perché, avverte, «siamo una squadra. Si può fare di più e tutti insieme si può fare la differenza».

                                                                                                                        di Antonio Maria Mira


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