sabato, aprile 27, 2013
L’escatologia spicciola di Papa Francesco 

di Paolo Fucili

Anche i malati di cataratta credono di vedere bene. “Io non ho bisogno degli occhiali”. Per vedere magari vedono, ma dopo che si son fatti operare, cosa dicono? “Mai ho pensato che si potesse vedere così, senza occhiali, tanto bene!”. Così, ecco, è la vita, un continuo preparare gli occhi, quelli dell’anima, a contemplare quando sarà ora “quel volto meraviglioso di Gesù”.

L’insolito ma efficace paragone appartiene, manco a dirlo, a papa Bergoglio nell’omelia di ieri nella cappella di Santa Marta, il “residence” dove il sua santità ha deciso per ora di abitare e ogni giorno alle 7.00 celebra messa per diversi gruppi e categorie di lavoratori del Vaticano. E come un sacerdote qualunque alle prese coi suoi parrocchiani, non si preoccupa troppo di infiocchettare il discorso con chissà quali giri di parole, semmai ricorre spesso a coloriti esempi, tratti da comuni esperienze di vita quotidiana, dipanando le proprie riflessioni dal Vangelo del giorno, che oggi 26 aprile narra le parole di Gesù agli apostoli durante l’ultima cena, come riportate da Giovanni 14,1-6: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: ‘Vado a prepararvi un posto?’".

Sembra quasi che Gesù parli del cielo, la “patria definitiva”, come fosse un “ingegnere” o un “architetto”, è la prima impressione. Ma la preparazione in questione è un’altra, come è facile intuire. “Preparare il posto è preparare la nostra possibilità di godere, la possibilità di vedere, di sentire, di capire la bellezza di quello che ci aspetta”. E questo avviene lungo il cammino dell’intera vita “con le prove, con le consolazioni, con le tribolazioni, con le cose buone”. Fatti salvi casi estremi, prima ad esempio di morire appesi ad una croce, in cui al Signore bastano anche pochi minuti, “come ha fatto con il buon ladrone”. Il problema vero, semmai, è quando il cristiano si lascia sedurre dalla presunta “sapienza” mondana che taccia di “alienazione” qualunque fede si proietti in un aldilà ultraterreno. “Ma padre” - altro espediente caro al Papa, dare voce ad immaginarie obiezioni alle sue affermazioni - “io sono andato da un filosofo e mi ha detto che tutti questi pensieri sono una alienazione, che noi siamo alienati, che la vita è questa, il concreto, e di là non si sa cosa sia…”.

Non c’è capitolo in effetti più ferocemente contestato, in tutta la teologia cristiana, della cosiddetta “escatologia”, la dottrina delle “cose ultime”, i “novissimi” del vecchio catechismo: morte, giudizio, inferno o paradiso. Sarà per questo, forse, che all’ombra dei campanili se ne parla sempre di meno, lamentava a ragione, tempo fa, un sacerdote romano a colloquio con Benedetto XVI. “Noi tutti”, replicò il predecessore di Francesco”, siamo ancora sempre colpiti dall'obiezione dei marxisti, secondo cui i cristiani han solo parlato dell'aldilà e hanno trascurato la terra”. La famosa religione “oppio dei popoli” di marxiana memoria, tanto per intenderci. “Così noi vogliamo dimostrare che realmente ci impegniamo per la terra e non siamo persone che parlano di realtà lontane, che non aiutano la terra”, spiegò il papa tedesco, aggiungendo tuttavia che “quando non si conosce il giudizio di Dio, non si conosce la possibilità dell'inferno, del fallimento radicale e definitivo della vita, non si conosce la possibilità e la necessità della purificazione. Allora l'uomo non lavora bene per la terra perché perde alla fine i criteri, non conosce più se stesso, non conoscendo Dio, e distrugge la terra”.

Anche papa Bergoglio ha ammesso appena due giorni fa che la fede del cristiano medio spesso vacilla, quando si parla di aldilà con annessi e connessi, pur affermando il Credo che Gesù, quando sa solo lui, “di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti”. L’occasione era l’udienza del mercoledì, con una catechesi della serie inaugurata da Joseph Ratzinger sul Credo, appunto, nell’anno della fede in corso. Si parlava delle dieci vergini della parabola evangelica che attendono lo sposo di notte. Vegliare nella lunga attesa, proprio come fanno le cinque più accorte, significa “saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice”. Poi c’è la parabola dei talenti, il ricco padrone che affida ai servi i propri beni raccomandandosi di farne buon uso, finché lui non tornerà. Due, così facendo, saranno ricoperti di elogi, uno cacciato con ignominia. “L’attesa del ritorno del Signore”, morale della favola, “è il tempo dell’azione, il tempo in cui mettere a frutto i doni di Dio non per noi stessi, ma per Lui, per la Chiesa, per gli altri, il tempo in cui cercare sempre di far crescere il bene nel mondo”. Altroché l’oppio di Marx!

Infine il giudizio finale secondo Matteo (25,31-45), la pagina immortalata, per dirne uno, in quel capolavoro assoluto che è il Giudizio universale michelangiolesco della Cappella sistina. Lungi dal Papa della misericordia agitare quel racconto come un minaccioso spauracchio, l’atteggiamento opposto, altrettanto pernicioso, al censurarlo. “Guardare al giudizio finale”, ha concluso mercoledì, “non ci faccia mai paura; ci spinga piuttosto a vivere meglio il presente. Dio ci offre con misericordia e pazienza questo tempo affinché impariamo ogni giorno a riconoscerlo nei poveri e nei piccoli, ci adoperiamo per il bene e siamo vigilanti nella preghiera e nell’amore”.

E questa, ha concluso con l’omelia di oggi, “non è alienazione; questa è la verità, questo è lasciare che Gesù prepari il nostro cuore, i nostri occhi per quella bellezza tanto grande”. “Io non ti truffo, io non ti inganno”, è come se Gesù dicesse agli apostoli e a noi tutti, nella parafrasi che il Papa fa del Vangelo odierno. Come dar credito alle sue parole? La brevità, altra apprezzabile dote delle omelie di Bergoglio, non consentiva di allargare troppo il discorso. Ma la risposta, se sviluppiamo un poco l’azzeccato esempio della cataratta e degli occhiali, appena accennato dal Papa, non è difficile da intuire. Anche la fede può fare paura, come i ferri di un chirurgo. Ma di quella paura neppure ci ricorderemo più, quando vedremo bene come mai avevamo visto prima.


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