sabato, marzo 02, 2013
“Per favore, per cortesia, il compare ti manda tanti saluti, vedete che potete fare”...

Liberainformazione - “Ci sono gli amici di Casal di Principe e vi chiedono di mettervi a posto”. “Dobbiamo essere tutti amici e aiutarci con solidarietà e venendoci incontro, senza litigare. Dobbiamo stare in pace”. Non siamo a Napoli oppure a Caserta ma in Toscana. I dialoghi intercettati dagli investigatori sono inequivocabili e raccontano meglio di tante altre parole di come la camorra abbia invaso nuovi territori impossessandosi di importanti attività produttive usate da copertura per il riciclaggio dei soldi sporchi . I casalesi dopo il Lazio e l’Emilia-Romagna quindi da tempo sono sbarcati anche in Versilia e in particolare a Viareggio. Lo spaccato emerge – senza sorprese – dall’ultima inchiesta condotta dalla Dda e dalle squadre mobili di Caserta e Firenze che ha portato dietro le sbarre 23 persone e il sequestro di beni immobili per un valore di oltre 20 milioni di euro. Se qualche addetto ai lavori pensava che la cosca dei casalesi fosse stata sconfitta e resa inoffensiva dagli arresti eccellenti deve amaramente ricredersi anzi fare un – mea culpa -. Del resto già nella relazione annuale al parlamento, i servizi segreti – mai come in quel caso – era stati chiari e coincisi nell’indicare: “La camorra casalese, nonostante le importanti e destabilizzanti attività di contrasto, si conferma dotata di risorse umane, forza militare e capacità collusiva e di condizionamento tali da assicurare la persistente operatività nelle aree di origine e in quelle di proiezione, tra cui Emilia Romagna, Toscana e basso Lazio”. Nel corso delle investigazioni è venuto fuori che la camorra dei casalesi in terra Toscana non ha esportato la solita storia chiusa di affiliati che vanno a intimidire imprenditori, commercianti, negozianti per intascare i soldi del pizzo oppure praticare i tassi usurai. Ma ha messo su forse un nuovo modello di colonizzazione criminale. I camorristi “toscani” garantivano “servizi” – infatti – creavano coperture e protezione oltre l’apporto logistico ai criminali latitanti. Poi con una approfondita lettura del territorio localizzavano imprenditori di origine campana ed a loro si rivolgevano per chiedere il denaro. L’approccio non era mai violento oppure marcatamente estorsivo ma si cercava un dialogo, una vicinanza, una solidarietà, un tendersi per mano.

Una camorra con un approccio più allusivo, più seduttivo, dal volto meno violento ma forse più minaccioso e aggressivo. Si, perché i casalesi un po’ come gli ‘ndranghetisti sempre e comunque hanno l’esigenza di occupare gli spazi, entrarci dentro, socializzare il territorio, costruire rapporti di condivisione e fare comunità. Insomma non sorprende – se in questa logica – alcuni imprenditori da vittime erano diventati carnefici aiutando il clan a trovare nuovi soggetti da vessare. I camorristi però sono sempre camorristi. Laddove però sulla loro strada trovavano resistenze o peggio tentativi di contrasto passavano alle maniere forti: ritorsioni, incendi, danneggiamenti e minacce con l’uso di armi. Le accuse contestate agli arrestati vanno dall’associazione per delinquere di tipo mafioso, all’estorsione, alla detenzione fino al porto d’armi, al danneggiamento seguito da incendio, alla detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. A sostanziare l’atto d’accusa ci sono anche diversi filmati catturati dalle telecamere degli investigatori, messe perfino sugli alberi. Dalle immagini, in particolare, si vedono gli affiliati al clan dei casalesi in un terreno di Viareggio mentre seppelliscono le armi che utilizzavano per portare a termine le estorsioni. L’indagine ha avuto un inizio quasi casule e nasce mentre si operavano dei servizi di controllo per catturare l’allora latitante Antonio Iovine ‘o nennillo. Si seguivano le tracce di alcuni personaggi che curavano gli affari delle famiglie Schiavone, Russo e Iovine nel centro Italia. La Dda – il 5 novembre del 2010 – riesce ad intercettare alcune conversazioni dalle quali emerge che un gruppo di casalesi era partito dai paesi casertani, in particolare dalla zona di Gricignano d’Aversa ed era diretto in Toscana, sulla costa, in Versilia e a Viareggio dove aveva dei referenti “paesani” che li avevano messi in contatto con imprenditori del luogo. Un aspetto importante. Un filo da seguire e capirne l’intreccio. Non a caso tra gli arrestati figurano proprio alcuni imprenditori casertani titolari di aziende in Toscana e trasformati nel tempo da vittime a membri effettivi e attivi del clan. Oltre ad agevolare in alcuni casi la latitanza di personaggi campani ricercati spesso si rendevano disponibili a favorire la concessione di misure alternative alla detenzione attraverso assunzioni fittizie presso le loro aziende, e ricoprendo il ruolo di procacciatori d’affari in grado di indicare al clan altri imprenditori a cui avanzare le richieste estorsive. Ne sa qualcosa Maria Grazia Lucariello, 43 anni, che dietro la sua attività di commerciante a Viareggio, avrebbe favorito la cosca, insieme al marito Salvatore Mundo.

Imprenditori “a disposizione” della cosca con la funzione di veicolare le richieste di tangenti, agevolando le richieste estorsive, anche indicando l’inizio di nuovi appalti e lavori. C’era ad esempio Marcello Mormile che aveva il ruolo di esattore di tangenti, uomo di fiducia e braccio armato di Salvatore Mundo e di sua moglie. I due coniugi spesso tornavano periodicamente nel casertano, con lo scopo di “perpetuare il ruolo di rispettati capi-zona del clan dei casalesi da loro ricoperto in Toscana”.

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