giovedì, febbraio 28, 2013
Bradley Cooper, star di “Notte da leoni”, in un ruolo profondo e intenso. Jennifer Lawrence è Tiffany, nell’interpretazione che le ha appena regalato l’Oscar come migliore attrice. 

di Cristina Bianchino 

Jennifer Lawrence, la protagonista femminile de “Il lato positivo”, ha appena vinto l’Oscar come migliore attrice e ora il film sta per arrivare nelle sale italiane (giovedì 7 marzo). Era l’unico, tra i 9 film candidati agli Academy Awards, che ancora mancava sui nostri schermi e c’è molta attesa per la commedia agrodolce di David O. Russell che negli Stati Uniti è presente da ormai 4 mesi nella classifica dei primi 10 per gli incassi al box office: un film che è cresciuto lentamente fino a trasformarsi in uno dei fenomeni cinematografici di quest’anno. Da noi potrebbe piacere tantissimo, oppure non essere compreso. Anche gli americani, in fondo, lo hanno apprezzato sul lungo percorso. Questo perché “Il lato positivo” (Silver Linings Playbook, in Usa, guarda il trailer) è una commedia inusuale che di primo acchito potrebbe lasciare perplessi.

Il protagonista è Bradley Cooper, la simpatica canaglia di “Una notte da leoni”, che veste i panni di Pat, appena uscito dopo otto mesi da un ospedale psichiatrico per un disturbo bipolare che gli ha fatto perdere il lavoro e distrutto il matrimonio. Ora vuole riprendersi la sua vita e soprattutto riconquistare la ex moglie, alla quale non può legalmente avvicinarsi: un particolare che getta un’ombra sinistra sulla storia – specie all’inizio – e che inevitabilmente ci fa pensare alle storie di stalking e femminicidi che sempre più spesso la cronaca ci riporta. Ed è proprio questo dubbio a tenere lo spettatore sul filo per quasi due ore: Pat è un uomo ormai guarito e capace di badare a se stesso oppure è ancora malato e pericoloso? La sceneggiatura è fluida e passa da momenti in cui il protagonista esplode in scatti di ira ad altri dove parla meravigliosamente a sproposito.

Alla fine viene quasi spontanea l’analisi: forse siamo tutti un po’ malati e non ce la sentiamo di condannare un uomo per le sue azioni o per il suo modo di parlare. Forse anche noi saremmo usciti di testa di fronte alla prova che Pat si è trovato ad affrontare. Lui è così convincente nella sua difesa che il dubbio si insinua subito. Durante una seduta con il suo psichiatra ripercorre la scena che ha scatenato la sua furia e lo fa con una tale naturalezza – e dovizia di particolari – che si finisce per stare dalla sua parte. E quando dice al dottore: “…di fronte a quella scena, ho svalvolato!”, non si può che sorridere e assolverlo. Come a dire: ‘Sì, avrò pure sbagliato, ma vorrei vedere cosa avrebbe fatto chiunque altro nei miei panni!’. Questa sua simpatia, questo suo essere “fuori di testa”, ma mai completamente, è la vera forza del film.

Simpatica follia che ritroviamo anche nella protagonista femminile, la splendida Jennifer Lawrence, che – pur così giovane – sa stare in scena come poche e riesce a tener testa al fascinoso Bradley Cooper e ad un mostro sacro come Robert De Niro. Tiffany ha da poco perso il marito e ha problemi di dipendenza dal sesso, quindi è sicuramente una donna inadatta all’instabile Pat. Eppure è in grado di capirlo al volo: un po’ sono simili, un po’ sembrano lontanissimi. Un’alchimia perfetta per scatenare qualcosa che alla fine non viene mai completamente espressa e resta lì, sospesa e ineluttabile.

E allora ecco che il film cambia registro, si intravede una speranza, cresce il ritmo, ma l’happy end non è scontato e si resta sul filo del rasoio fino alla fine. Davvero intenso. Merito anche di un cast azzeccato e ben diretto: oltre all’acclamata Jennifer Lawrence, conferma il suo talento Bradley Cooper, capace di reggere un ruolo non facile, dalle molte sfaccettature: passa con disinvoltura dalla scena più drammatica a quella più leggera, senza sembrare mai fuori ruolo. E ci fa amare il suo Pat.

Bravo De Niro che strappa più di una risata nei panni del padre di Pat, fanatico tifoso dei Philadelphia Eagles (passione di famiglia) e superstizioso fino all’ossessione. Il rapporto con il figlio sembra superficiale solo in apparenza e regalerà anche momenti commoventi. Gli fa da spalla di lusso Jackie Weaver, la mamma che va a prendere il figlio al manicomio, riportandolo alla vita e temendo ogni volta di aver commesso un errore. E poi un corollario di personaggi che danno corpo alla storia, intrecciando le loro vite a quelle dei protagonisti. Tra tutti Anupam Kher, lo stoico psichiatra, e Chris Tucker: con lui il film diventa commedia tout court.

Una scelta coraggiosa quella di David O. Russel che, dopo il grande successo di “The Fighter”, torna al cinema con un film che si tiene perfettamente a metà strada tra la commedia e il melodramma. Ci riesce bene, dando di volta in volta un po’ d’ossigeno con i toni leggeri, per poi tornare con disinvoltura a quelli più forti. Nel complesso si tratta di una commedia che fa ridere e riflettere, a tratti surreale. E gli si perdona anche il lieto fine, davvero troppo melenso. Il percorso dell’intero film lo giustifica e lo rende, evidentemente, necessario.


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