La ditta calabrese non cede davanti alla corruzione mafiosa e alle imposte dei tassi di interesse delle banche. Affronta la crisi a testa alta, investendo a proprie spese nella ricerca e dando lustro ad un Paese che da sempre le volta le spalle
Nel 1987 destò scalpore il coraggio dei proprietari della “De Masi Agricoltura”, che si rifiutarono di pagare il pizzo alla ‘ndrangheta. Tutti i quotidiani calabresi rivolsero l’attenzione a Giuseppe De Masi, imprenditore di Rizziconi, che fondò nel 1957 l’azienda trasformando il cortile della sua abitazione, dove da ragazzo riparava i piccoli trattori dei contadini della Piana di Gioia Tauro, in un’azienda leader nella vendita di macchine agricole. Il buon lavoro messo in atto dall’intera famiglia e dagli operai ha permesso all’attività di crescere ed esportare i macchinari anche in Spagna, Portogallo, Grecia, Israele. Ma accadde allora, come è successo e succede ancora oggi a molti altri imprenditori calabresi, che i mafiosi tentarono di estorcere il pizzo con una lunga serie di intimidazioni, fino a far scoppiare due ordigni sotto l’abitazione di Giuseppe De Masi. Ma l’imprenditore, malgrado le paure e i timori, rifiutò di cedere alle minacce anticipando l’azione più nota di Libero Grassi, che morì a causa del suo tentativo di ribellione alla mafia.
Accanto agli sforzi di Giuseppe c’è sempre stato il figlio Antonino, che già da ragazzo seguiva con grande intuito manageriale l’amministrazione e l’attività esecutiva dell’azienda. Oggi, a distanza di tempo, Nino è un uomo coraggioso come il padre, costretto a combattere altre battaglie. Sì, perché dopo che la famiglia De Masi ha vinto la sua battaglia di legalità allontanando da sé le grinfie della ‘ndrangheta, c’è stata una nuova minaccia che ha rischiato di mettere in crisi una delle poche aziende italiane che continua a mantenersi in piedi contando unicamente sulle proprie risorse: l’azienda ha infatti subito un raggiro bancario, anche questo denunciato con la tenacia di sempre. Nel 1996 infatti Nino decise di cogliere i privilegi previsti dalla legge 108 per l’imprenditoria nel Mezzogiorno, ma ben presto, tramite artifici bancari sul Tegm (il tasso effettivo globale medio), subì una vera e propria forma di usura da alcune banche. La famiglia De Masi allora presentò un esposto in Procura contro i presidenti di Capitalia, della Bnl, della Banca Antonveneta e di altri 8 funzionari e dirigenti di 3 istituti di credito, che riuscirono però a farla franca adducendo giustificazioni varie e incolpando i sistemi informatici per i tassi applicati.
Durante questi anni Nino De Masi ha continuato a mantenere in vita la sua azienda investendo sulla ricerca e presentando in particolare un progetto di notevole importanza: il “guscio di sicurezza” contro il rischio di terremoti, resistente a crolli di 10 tonnellate. Tuttavia anche questa apprezzata invenzione non riesce, e non è un caso, a ricevere dei finanziamenti. Nino non smette di denunciare le stranezze che destabilizzano la sua regione e tutto il Paese, sicuro, come lui stesso scrive in una lettera indirizzata alla Procura della Repubblica, che “le banche sono colluse con la criminalità organizzata e un sistema finanziario in crisi può far traballare le democrazie”.
Nel 1987 destò scalpore il coraggio dei proprietari della “De Masi Agricoltura”, che si rifiutarono di pagare il pizzo alla ‘ndrangheta. Tutti i quotidiani calabresi rivolsero l’attenzione a Giuseppe De Masi, imprenditore di Rizziconi, che fondò nel 1957 l’azienda trasformando il cortile della sua abitazione, dove da ragazzo riparava i piccoli trattori dei contadini della Piana di Gioia Tauro, in un’azienda leader nella vendita di macchine agricole. Il buon lavoro messo in atto dall’intera famiglia e dagli operai ha permesso all’attività di crescere ed esportare i macchinari anche in Spagna, Portogallo, Grecia, Israele. Ma accadde allora, come è successo e succede ancora oggi a molti altri imprenditori calabresi, che i mafiosi tentarono di estorcere il pizzo con una lunga serie di intimidazioni, fino a far scoppiare due ordigni sotto l’abitazione di Giuseppe De Masi. Ma l’imprenditore, malgrado le paure e i timori, rifiutò di cedere alle minacce anticipando l’azione più nota di Libero Grassi, che morì a causa del suo tentativo di ribellione alla mafia.
Accanto agli sforzi di Giuseppe c’è sempre stato il figlio Antonino, che già da ragazzo seguiva con grande intuito manageriale l’amministrazione e l’attività esecutiva dell’azienda. Oggi, a distanza di tempo, Nino è un uomo coraggioso come il padre, costretto a combattere altre battaglie. Sì, perché dopo che la famiglia De Masi ha vinto la sua battaglia di legalità allontanando da sé le grinfie della ‘ndrangheta, c’è stata una nuova minaccia che ha rischiato di mettere in crisi una delle poche aziende italiane che continua a mantenersi in piedi contando unicamente sulle proprie risorse: l’azienda ha infatti subito un raggiro bancario, anche questo denunciato con la tenacia di sempre. Nel 1996 infatti Nino decise di cogliere i privilegi previsti dalla legge 108 per l’imprenditoria nel Mezzogiorno, ma ben presto, tramite artifici bancari sul Tegm (il tasso effettivo globale medio), subì una vera e propria forma di usura da alcune banche. La famiglia De Masi allora presentò un esposto in Procura contro i presidenti di Capitalia, della Bnl, della Banca Antonveneta e di altri 8 funzionari e dirigenti di 3 istituti di credito, che riuscirono però a farla franca adducendo giustificazioni varie e incolpando i sistemi informatici per i tassi applicati.
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Tutti dovrebbero avere il coraggio dell'azienda De masi senza paura. Solo così si potrà distruggere questa razza criminale che vive agitamente sulle spalle di chi lavora onestamente.
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