giovedì, ottobre 04, 2012
Alle Scuderie del Quirinale si celebra il maestro di Delft e il secolo d’oro della pittura olandese fino al 20 di gennaio del 2013

di Carlo Mafera

Rimanere in contemplazione dei quadri di Vermeer significa meditare sul significato profondo del quotidiano, della luce che lo pervade e del silenzio che lo avvolge. È una sorta di ritiro spirituale laico che ci mette in contatto con le nostre profondità. Veermer ci spinge a dar valore alle piccole cose che riteniamo erroneamente acquisite e ci aiuta ad osservarle con più attenzione e amore. Gli interni delle stanze possiedono un’atmosfera che trascende il tempo e la realtà. La luce che invade il luogo raffigurato dal pittore è simile a quella caravaggesca, anche se le tele di Veermer non hanno la stessa drammaticità e nessuna oscurità da illuminare. La luce è la protagonista dei quadri veermeriani: ciò che appare sorprendente in tutti i quadri di Vermeer è proprio la qualità eccezionale della luce. Ogni sfumatura di colore è attentamente studiata per creare la sensazione più esatta possibile della luce reale che entra nell’ambiente. In realtà lo spazio, essendo interno, è potenzialmente buio. La luce, quindi, tende a prendere in questo spazio una sua precisa fisionomia visiva. La luce «si vede». Non sta semplicemente a «far vedere» le cose, ma si «fa vedere» lei stessa. È proprio in questa straordinaria capacità di rendere visibile e quasi tattile la luce che si ritrova uno dei maggiori fascini della pittura di Vermeer, che ritroviamo in tutti gli i quadri da lui realizzati.

Quella luce che altri artisti della stessa epoca non si sognarono minimamente di utilizzare alla stessa maniera e con la stessa profondità teologica con la quale la utilizzò Veermer. Fu allora ed è adesso ancora la luce della Verità. Era infatti l’intuizione del pittore olandese che vedeva nitidissimo e captava una luce che tutti gli altri, manieristi e barocchi, percepivano solo “fisicamente” e confusamente. La luce veermeriana tende moralmente alla verità, la emancipa dalla prosaica realtà in cui è condannata, squarciandola, mettendone a nudo la dimensione terrena, ma nel caso di Veermer, a differenza del Caravaggio, tutto si svolge nella dimensione serena del quotidiano. Ma la verità-luce è comunque dramma e il dramma deve trovare comunque un approdo tranquillo nella quotidianità. L’uomo va restituito alla sua integrità e quindi fuori dall’artificiosità.

Veermer aveva tredici figli e presumibilmente trascorreva le sue giornate intensamente immerso nella baraonda e nella presenza di tante bocche da sfamare. Dipingeva non più di tre o quattro quadri ogni anno che però gli consentivano di affrontare le spese familiari. Ma il soggetto dei quadri non rifletteva l’atmosfera che si doveva respirare a casa sua. Piuttosto era il completo trascendimento di tale situazione. Il tempo assoluto, cioè sciolto dal presente, la luce e il silenzio erano i suoi temi preferiti e con essi, con la loro raffigurazione, paradossalmente sbarcava il lunario, con sua moglie ed i suoi tredici figli. Veermer ha contravvenuto così alla celebre massima “Carmina non dant panem”, cioè “le attività culturali (i versi) non danno da mangiare”.

Tutto lascia pensare che la sua conversione al cattolicesimo per poter sposare sua moglie abbia inciso non poco sulla sua vena pittorica. La luce della fede cattolica ha pervaso anche i suoi quadri. Infatti in ogni suo quadro non c'è nulla, neanche in piccola parte, che non venga trasfigurato dalla luce sfolgorante della sua religiosità.

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