domenica, settembre 02, 2012
Presentato oggi fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia il film documentario di Daniele Vicari “La nave dolce”: nell’agosto del 1991 una nave albanese carica di ventimila persone stipate ovunque giunse nel porto di Bari.

Radio Vaticana - Divenne un caso politico, mediatico e umanitario di inimmaginabili proporzioni e fu il primo respingimento di massa di cui l’Italia, impreparata e inadeguata, si rese responsabile. Immagini e testimonianze ricordano quei tragici fatti. La dolcezza della nave dovrebbe dipendere dal carico, ossia zucchero cubano. Ma tutto riflette il contrario, quando quel bastimento affollato di umanità finalmente libera, piuttosto felice, sicuramente poverissima e illusa, entra l'8 agosto del 1991 nel porto di Bari, una città attonita, impreparata, poi ferita. Era la "Vlora", proveniente da Durazzo, presa d'assalto da ventimila albanesi che si erano appena liberati della dittatura comunista e pensavano di trovare un’Italia fino ad allora solo sognata. Fecero esperienze ben diverse. Le immagini ricavate dagli archivi di entrambi i Paesi e "reimpaginate" da Daniele Vicari nel suo film - potenti, terribili, rimosse, ritornate - e le testimonianze che su uno sfondo bianco astratto e puro le interrompono, creano una “suspence” morale e un senso di disarmante tragicità, conoscendo anche che cosa ci avrebbero riservato gli anni a venire. Dopo giorni di forzata e inumana reclusione nello stadio della città, furono respinti oltre 18 mila albanesi praticamente nudi, affamati e disperati. Fu un’apocalisse umanitaria, una pagina di storia italiana amara, come conferma il regista:

R. - L’arrivo di quella nave è stato un po’ un pugno nello stomaco di un Paese che non aveva ancora capito i mutamenti avvenuti dopo il crollo del muro di Berlino. L’arrivo di un intero popolo su una nave che approda non per fame, ma per un anelito di libertà e il desiderio di migliorare la loro vita. Molti di loro sono infatti anche persone che avevano studiato. Quindi, sono venute per una serie di motivi importanti, che riguardano appunto l’essere umano in quanto tale. Sono arrivati, noi gli abbiamo dato un calcio e li abbiamo respinti. Tutto questo ha significato due cose secondo me: da una parte, il fatto che noi, non rendendoci conto di questi grandi cambiamenti, di questi grandi capovolgimenti, non abbiamo affrontato nella maniera adeguata quella che era appunto un’emergenza ma anche una grande opportunità di cambiamento, di fronte alla quale abbiamo sbagliato a chiuderci a riccio. E infatti abbiamo perso, perché poi non siamo stati in grado di gestire questo enorme afflusso di persone. È diventato un problema serio sul piano politico e sociale. Il secondo motivo è legato al fatto che un Paese di radici profondamente democratiche ha dimostrato a se stesso di non aver digerito la parola “democrazia”, che significa prima di tutto apertura, verso gli altri, verso le idee degli altri, e delle altre persone.

D. - A fronte dell’inadeguatezza delle istituzioni, il popolo italiano reagì ben diversamente...
R. - Per fortuna, noi italiani non abbiamo ancora dimenticato di essere uno dei popoli migranti del mondo, tant’ è che esiste un’altra Italia al di fuori dei nostri confini nazionali. C’è stata almeno una parte del nostro Paese che non ha reagito nel modo in cui hanno reagito le istituzioni e la politica. Per cui, nonostante questa propaganda violentissima, che è ancora la propaganda di questi giorni - perché sono di questi giorni gli ultimi respingimenti - e che sfrutta i sentimenti peggiori di una parte della popolazione italiana, c'è per fortuna tutta un’altra parte dell’Italia - le persone, le famiglie, gli individui, le organizzazioni - che è stata capace di non chiudersi. È solo questo che ha salvato il nostro Paese dall’isolamento.

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