domenica, giugno 24, 2012
Il regista inglese Peter Brook, con semplicità di mezzi, tra recitazione, canto e musica, rende omaggio alla cultura sudafricana con un intenso racconto di Can Themba

Città Nuova - "Coltivare la semplicità", consigliava il poeta e drammaturgo inglese Charles Lamb. Un precetto che si addice pienamente a Peter Brook. In scena due appendiabiti utilizzati come finestre, armadi, porte e bus, tra sedie colorate che servono a delimitare diversi ambienti. Tre musicisti impegnati anche in alcuni ruoli, e tre straordinari attori neri. Ed ecco una pièce en musique, come la definisce lo stesso regista. Sappiamo che questo artigiano del teatro, che ha sempre dimostrato quanta ricchezza si possa trasmettere con la semplicità teatrale, nel corso degli anni ha focalizzato sempre di più la sua attenzione sull’essenza della messinscena e del racconto, regalandoci spettacoli di grande magia alternati ad altri meno ammalianti. Torna ora ad emozionarci, tra risate e lacrime, con The Suit (spettacolo già allestito in francese col titolo Le costume), ispirato da un romanzo del 1950 dello scrittore sudafricano Can Themba (1924-1968), proposto, con successo, al Napoli Teatro Festival Italia.

Dentro una trama da vaudeville riecheggiano temi sociali che evocano l’inizio dell'apartheid situato a Sophiatown, cittadina a ovest di Johannesburg che sarà cancellata dalle ruspe dei bianchi “trasferendo” migliaia di persone in zone più favorevoli alle azioni di polizia. La storia, con umorismo e ironia iniziale, racconta di una giovane coppia, Filemone e Matilda, felicemente sposata, la cui vita improvvisamente verrà stravolta. Un giorno il marito scopre che la moglie ha una relazione con un altro uomo. Li coglie a letto in flagrante. L’amante riesce a fuggire ma lascia nella stanza il suo vestito. Sconvolto, ma senza usare nessun tipo di violenza, Filemone impone una punizione crudele: l’abito dell'amante dovrà rimanere in casa, sempre in mostra, e sedere pure a tavola con loro, in modo da essere sempre ricordato. Per Matilda è l'inizio dell'inferno, e il suo sofferto desiderio di perdono si scontrerà con l’intransigente severità del marito. Anche se col tempo il ménage famigliare sembrerà rientrare in una certa normalità, l’uomo alimenterà ulteriormente la penitenza inflitta mostrandola all’esterno: prima con la passeggiata domenicale, ulteriore simbolo umiliante del peccato della moglie; poi con una festa in casa dove lei, davanti agli invitati, sarà costretta a ballare con l’abito. Il tragico epilogo giungerà prima che l’uomo, finalmente persuaso a dimenticare e a perdonare, riesca a rimediare alla sofferenza provocata. Arriverà troppo tardi a casa. E lascia senza fiato questa scena silenziosa in cui, frontalmente, seduto accanto a lei, le tiene la mano senza vita come un Otello senza più parole.

La meraviglia e la forza teatrale della messinscena di Brook deriva - oltre che dalla vivida evocazione di tempo e luogo sulla società sudafricana con gli uomini confinati in lavori umili e le donne dedite a opere di bene all'interno della comunità nera -, soprattutto dalla sua capacità di trasmettere con pochi mezzi sentimenti universali. Ricordandoci che la donna è una cantante frustrata - una casalinga che aspira alla libertà sognando di poter cantare – Brook evoca anche l'esuberanza della vita cittadina attraverso la musica e il canto - da Miriam Makeba a Ella Fitzgerald – dando vita ad una serata vivace in casa della coppia coinvolgendo sul palcoscenico anche alcuni spettatori. Uno spettacolo, The suit, che è una lezione di come con “leggerezza” si possano trattare con profondità tematiche “pesanti”. Che solo un maestro come Brook, e pochi altri, sa fare.

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