martedì, giugno 26, 2012
Milano non concede la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché “non si può”. Adesso potrebbe tornare in extremis sulla propria decisione perché “non si può non potere”.

E-il mensile - Che brutto pasticcio. Che brutta figura. Una storia che conferma un vizio storico della sinistra istituzionale milanese (e italiana): si vuole essere avanguardia leninista e si è di fatto retroguardia (nel senso che ti beccano sempre) opportunista. Detta altrimenti: si fa inevitabilmente la figura dei fessi. A questo punto della faccenda, qualunque sia la decisione che verrà presa alla fine.

Perché dare la cittadinanza al Dalai Lama “non si può”? Perché c’è un Expo da salvare, dice la versione che va per la maggiore, e i soldi cinesi sono fondamentali. Dalla Cina, aggiungiamo che alla prossima Beijing Design Week di fine settembre, la già “capitale morale” del Belpaese sarà città ospite d’onore: sull’asse Milano-Pechino viaggerà molta intelligenza creativa, molta immagine e (si spera) molto business. Rischiare di buttare tutto all’aria per dare all’anziano monaco una onorificenza che in passato è stata concessa e negata in base ai consueti dispettucci reciproci delle consorterie politiche padane, non è certo il caso. Pare che addirittura il nostro ministero degli Esteri abbia fatto pressioni sulla giunta Pisapia affinché negasse la cittadinanza a Tenzin Gyatso.

E ora perché “non si può non potere”? Perché da destra e sinistra arrivano critiche imbarazzanti. Quelli di destra dicono: “A Roma, Alemanno gliel’ha data, la cittadinanza”, facendo diventare perfino il sindaco della capitale un esempio di moralità e trasparenza. La situazione è grave ma non seria, disse qualcuno. Dalle parti del Pirellone, addirittura il neoindagato Formigoni strilla. Pisapia, sei riuscito a risuscitare i morti.

La Cina ha la sua posizione piuttosto chiara: il Dalai Lama è un traditore della patria che cospira insieme ad alcune forze straniere per destabilizzare il Paese e violarne l’integrità territoriale. In questa logica, è del tutto coerente che Pechino compia ritorsioni contro chi non si limita a ospitare, ma addirittura celebra, un “nemico” della Cina. Ritorsioni che, sia detto, sono piuttosto imprevedibili. Ci sono misure economico-politiche scontate (niente soldi cinesi all’Expo; Milano “salta” come città ospite della Beijing Design Week), ma altre abbastanza creative.

Ai tempi delle tensioni con la Francia di Sarko, attorno alle Olimpiadi del 2008, un’intera scolaresca transalpina in gita a Pechino venne “casualmente” rastrellata con il bagaglio di droghe più o meno leggere che si portava appresso. Grandi squilli di fanfara contro i “giovani francesi depravati” ed espulsione collettiva dall’Impero di Mezzo. Consumare sostanze illegali è illegale (appunto). Ma nella flessibilità del diritto cinese, non ti prendono finché non c’è un buon motivo per farlo. E anche oggi, per i cittadini francesi residenti in Cina, è più complicato che per gli altri europei rinnovare il visto.

Così l’Occidente (di cui Milano fino a prova contraria fa parte) resta sempre con il cerino in mano, perché da un lato riconosce la Cina come partner “alla pari”, dall’altro non può rinunciare a essere se stesso: credere, a volte in buonafede più spesso no, che i propri valori siano universali e quindi esportabili. E poi, che diamine, non si può mica cedere ai ricatti. Dunque, se non si dà la cittadinanza onoraria al Dalai Lama, si è stati automaticamente “ricattati” dalla Cina. Una non azione diventa un’azione enorme. Quanto carico simbolico, quanto non detto, c’è in tutto ciò.

Forse bastava dirlo esplicitamente, essere trasparenti. L’onorificenza non la diamo perché non sarebbe un atto coerente né opportuno. Non coerente perché la Cina è un partner alla pari e quindi dobbiamo rispettarla. [Così come, detto per inciso, rispettiamo gli Usa nonostante Guantanamo e le extraordinary renditions di cui anche da queste parti ne sappiamo qualcosa: qualcuno ricorda Abu Omar?]. Rispettarla significa evitare atti che potrebbero essere intesi come provocazione. E quindi concedere la cittadinanza sarebbe anche un gesto inopportuno, in quanto danneggerebbe in nostri rapporti, sempre più stretti, con la Cina.

“Cari cittadini milanesi, scegliamo di non dare la cittadinanza onoraria al Dalai Lama perché Milano è una città globale che sa rapportarsi con il mondo. Nel riconoscere l’integrità territoriale della Cina, riconosciamo che anche la questione tibetana, pur nella sua complessità, è questione interna. Celebriamo il Dalai Lama come figura spirituale e quindi lo accogliamo a Milano, ma la cittadinanza onoraria sarebbe un’investitura politica in contraddizione sia con i nostri interessi sia con un principio di fondo: non ci intromettiamo nelle vicende interne degli altri Paesi”.

Preveniamo un’obiezione: la cittadinanza onoraria non è necessariamente un’investitura politica, può essere anche un riconoscimento esclusivamente morale e accettare la sua “politicità” significa allinearsi alla logica di Pechino. Giusto. Ma a questo punto una giunta deve avere la forza di farsi giudicare. Ai milanesi l’ultima parola.

E poi, siamo sicuri che la celebrazione del Dalai Lama non sia sempre e comunque un atto politico? Il fatto è che la questione tibetana, oltre a essere estremamente complessa (non l’affrontiamo qui), è un convitato di pietra, un grande non detto, nei rapporti tra Cina e Occidente. Se ne sa poco, ma in fondo al cuore l’opinione pubblica occidentale sembra convinta che il Tibet sia uno Stato indipendente, in base a categorie politiche nostre: Stato-nazione, autodeterminazione dei popoli. Il Dalai Lama è d’altra parte un’icona mediatica perfetta affinché questa convinzione continui ad albergare nelle nostre coscienze. Nel celebrare Tenzin Gyatso non si onora mai solamente il leader spirituale. Quindi, di fatto, proclamiamo a ogni piè sospinto la nostra amicizia con la Cina e al tempo stesso pensiamo che un pezzo se ne dovrebbe staccare. Questa è la principale contraddizione dell’Occidente.

La Cina lo sa benissimo e agisce di conseguenza: aspetta che il vecchio monaco passi a successiva reincarnazione e nel frattempo adotta tutte le contromisure del caso: pressioni e ritorsioni verso chi onora formalmente un “nemico” della patria. Rischiando, paradossalmente, di aumentare il divario tra l’immagine di sé che vorrebbe trasmettere all’estero e quello che il mondo di fatto percepisce. E questa è la principale contraddizione cinese.

Ovunque sbarchi il Dalai Lama, le polemiche lo seguono. Oggi tocca a Milano, che si è distinta nell’incapacità di gestirle. In attesa del prossimo Ambrogino d’Oro e dell’ennesimo melodramma.

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