mercoledì, febbraio 22, 2012
Il segno delle ceneri che caratterizza la liturgia penitenziale del primo mercoledì di quaresima ci richiama alla fragilità della nostra esistenza e alla precarietà del vivere. Tra le possibili soluzioni, il Vangelo pare essere quella realmente risolutiva…

di Bartolo Salone

“Crisi” è ormai la parola d’ordine di questi tempi: politici e commentatori vari ci rammentano con insistenza le difficoltà del momento, la congiuntura economico-finanziaria negativa, il problema della disoccupazione e del precariato. I miti della modernità, a partire dall’idea del Progresso e della Libertà (quella nuova dea a cui numerose vie e piazze italiane, dal Risorgimento in poi, sono state dedicate con tanto di statue e di stele votive), cominciano a scricchiolare. Neppure la scienza e la tecnica valgono più a rassicurare l’animo inquieto e disilluso dell’uomo moderno, come avveniva meno di un secolo fa.

Questo in verità è quel che accade quando ci si innamora di false divinità, le quali promettono quel che non possono mantenere. Il peccato per dir così “originale” che sta alla base delle ideologie libertarie, moderniste e positiviste, nate dal seno dell’Illuminismo, è quello di sempre: credere e far credere che possa esservi paradiso in terra; illudere l’uomo di potersi redimere con le sue sole forze, senza bisogno di Dio. Terminata però l’euforia che la suggestione di siffatte idee porta inevitabilmente con sé, ecco riprendere coscienza della crisi a tutti i livelli, economico prima e morale poi.

All’interno di questa cornice si può comprendere più agevolmente il significato del gesto che da tempi immemorabili accompagna la liturgia penitenziale del Mercoledì delle Ceneri. Le ceneri che il sacerdote impone sul capo del penitente ricordano infatti ai fedeli una verità che, pur nella sua evidenza, viene troppo facilmente dimenticata: quella della precarietà della condizione umana. L’uomo non è fatto per vivere in eterno su questa terra, ma è semplicemente di passaggio. “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere tornerai!” (Gen 3, 19). Queste le dure parole che il Signore rivolge ad Adamo, dopo il peccato, e che suonano come un monito per l’umanità di ogni tempo: guai a pensare che la vita vera sia quella presente, guai a pensare di poter raggiungere il paradiso sulla terra! Tutte le volte che l’uomo ha provato a costruire paradisi in terra, infatti, non ha ottenuto altro che dolore, morte e distruzione. La storia stessa dimostra la verità profonda che si nasconde dietro le parole della Bibbia.

Il segno delle ceneri ci ricorda allora quello che siamo: esseri senzienti che avvertono sulla propria pelle tutto il peso di quella precarietà esistenziale che si presenta loro come una ineluttabile legge di natura. Ma nel ricevere le ceneri, come un balsamo, sentiamo pronunciare per bocca del sacerdote le rassicuranti parole di Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo”. La morte per il cristiano non ha la parola definitiva. Contro la precarietà della vita esiste un rimedio potente: il Vangelo! Dalla conversione al Vangelo dipende infatti la nostra stessa sopravvivenza. “Vuoi vivere?”, ci chiede Gesù. Allora credi al Vangelo. Il Vangelo è la sola parola risolutiva. Tutte le altre parole, tutte le altre strade seguite dall’uomo alla fine si rivelano inconcludenti: tutte conducono ad un vicolo cieco.

Il potere, il successo, le ricchezze, lo stesso sapere, per quanto possano dare la parvenza di una sicurezza in questo mondo, alla fine dei conti si rivelano essere delle pure illusioni, nelle quali è tanto più facile cadere quanto più si è perduta la speranza nella vita eterna. Ci ricorda il Salmista: “Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine e non vedere la tomba. Vedrà morire i sapienti; lo stolto e l’insensato periranno insieme e lasceranno ad altri le loro ricchezze. Il sepolcro sarà la loro casa per sempre, loro dimora per tutte le generazioni; eppure hanno dato il loro nome alla terra” (Sal 48, 9-12). Chi muore non solo non porta nulla con sé (per cui a niente servono le ricchezze accumulate in una vita pur a costo di duri sacrifici), ma pure le sue opere, per quanto grandi, prima o poi cadranno nell’oblio! Fama e ricchezza, lungi dall’essere delle soluzioni, sono delle pericolose illusioni che finiscono con il distoglierci da ciò che veramente conta.

Ma “a che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8, 36). E’ questa forse la più grande provocazione che ci viene rivolta da Gesù nel Vangelo. La provocazione è tanto più forte oggi, visto che si è progressivamente smarrito il senso dell’eternità e che parole come “salvezza”, “anima”, “vita eterna” suonano a molti vane e inconsistenti. Di fronte a questa provocazione si potrebbe essere tentati di abbandonare la sequela. Se questa tentazione dovesse prendere anche noi, che possiamo rispondere a Gesù come Pietro: “Da chi andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6, 68). Dalla vanità di tutte le altre strade capiamo infatti che il Vangelo rimane la sola via realmente praticabile per chi cerca la Vita.

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