domenica, febbraio 26, 2012
Riflessioni, come pagine di diario, suggerite dagli incontri quotidiani con persone “di frontiera” in cui, a Londra come in Marocco o a Parigi, l’autore ritrova le tracce del volto di Dio. Esperienza viva, attualissima, trasformante, anche per il lettore. Per andare alla frontiera di se stessi, della propria fede, del proprio mondo. Intervista all’autore di “Dio attende alla frontiera” Renato Zilio

D - Lei scrive che “la frontiera è un luogo teologico”. Ci spiega questa affermazione?
R - È un luogo dove si scopre Dio, dove Dio si rivela, dove preferisce manifestarsi. È un luogo privilegiato per costruire l’originalità cristiana della fratellanza: amare l’estraneo, lo sconosciuto, l’altro. Situazione evangelica per eccellenza, essa dice la forza di Dio nel superare le nostre barriere.

D - Che cos’è la frontiera per lei?
R - Cerniera del mio rapporto con l’altro, essa può separare o congiungere, ma senz’altro induce a paragonare, a confrontare, a confrontarsi e a volte ad affrontarsi. “Luogo particolare dell’incontro e del confronto, dell’autonomia e della simbiosi, dell’identità e dell’alterità che si danno appuntamento, del contatto con un altro cammino umano che si incrocia, con un altro mondo”. È là dove si impara ad essere porosi, come suggeriscono i sociologi, e ciò ricorda la massima: “I sistemi si oppongono, gli uomini si incontrano”. Le frontiere sono ormai arrivate in casa nostra, si sono spostate, l’incontro con uomini, culture e mondi differenti si ritrova in molti nostri paesi. Ci fa vivere situazioni nuove, inedite e interculturali.

D - E perché Dio ci attende proprio lì, alla frontiera?
R - È il Dio di Abramo, del primo credente che pose la sua intera fiducia solo in Dio e partì... È il Dio che invita a uscire dalla propria terra, dal proprio nido, che dà senso di stabilità, sicurezza e a volte onnipotenza. E ci fa sentire come al centro del mondo, attorno al nostro campanile nel nostro “piccolo mondo antico”. Così, Dio ci invita ad un cammino che ci porta alla frontiera di noi stessi, della nostra fede, del nostro mondo e delle nostre convinzioni, per accogliere Colui che ci libera da noi stessi, il Dio dell’incontro. Egli si rivela a noi quando nasce la disponibilità, l’apertura di mente e di cuore all’altro, lo spirito di servizio, la solidarietà. Tutte qualità che nascono alla frontiera di noi stessi, ci de-centrano, hanno il sapore vero del Vangelo.

D - Nel libro narra degli incontri con persone di religione, provenienza, costumi diversi. L’impressione è che la scoperta di Dio si realizzi principalmente nell’incontro con l’altro.
R - Lo sanno bene i discepoli di Emmaus. Incontrando per strada un estraneo - oltretutto ignorante perchè non sembrava essere al corrente di nulla - e camminando a lungo con lui essi hanno riscoperto la fiducia, la loro fede, la propria storia e la presenza di Dio insieme a loro. Allo spezzare un pezzo di pane - che ricordava la vita spezzata di un uomo che li aveva incantati, un vero Profeta di Dio - sono stati come fulminati da un’illuminazione. Questo è il prototipo di ogni incontro con Dio. Attraverso il volto, il cammino e la condivisione con l’altro, lo straniero. Interessante la risposta dell’arcivescovo di Rabat alla mia domanda: «Ma che cos’è mai una piccola chiesa come la vostra in un Paese totalmente musulmano?». «Una grande fortuna! – ribatteva lui - Incontrare l’altro nella sua differenza non è forse il messaggio di Cristo?». Penso all’esperienza di fede dei nostri migranti italiani all’estero immersi in altre culture, in altri popoli. Una fede viva e solida, che si apre alla cultura e alla religiosità degli altri in un lungo cammino di attraversamento di frontiere fatto di coraggio, di resistenza, di fiducia ritrovata e di apertura all’altro. Come a Emmaus. Incontrare l’altro rimane una lezione drammaticamente attuale per noi, anzi tout court cristiana.

D - Ma se si incontra Dio nel prossimo, ha ancora senso parlare di alterità?
R - Il prossimo non è il vicino, colui che sta accanto a me, “uno dei nostri”, il simile. Nel Vangelo è precisamente il contrario. È colui che è lontano a cui io ho il coraggio di avvicinarmi. Aiuta a capire ciò quella parabola che interviene proprio per spiegarlo: la parabola del buon samaritano. Rispondeva alla domanda: chi è il mio prossimo? È un povero malcapitato, appartenente a un altro mondo, a una diversa cultura e religione, a cui un samaritano “si fa prossimo”. Nel racconto di Gesù è proprio un “nemico comune” al suo popolo a farsi aiuto di emergenza, soccorso e sponsor. L’alterità di un essere umano in questo “racconto di amore a fondo perduto” ne esce come scritta con lettere d’oro.

D - La dimensione dell’universalità si realizza nell’incontro di “volti e culture differenti”. Scrive che questa è una “sfida per la Chiesa d’Europa”. In che senso?
R - Nel senso che siamo spesso malati di omogeneità, di uniformità o di arroccamento nella nostra identità e crediamo che con il simile si costruisca l’unità, come i granelli di sabbia di una spiaggia, uguali e ripetitivi. Invece per il cristianesimo è decisamente il contrario. Il suo modello è perfino divino: la vita stessa di Dio, quella trinitaria. Dove la differenza e allo stesso tempo la comunione trovano piena affermazione e realizzazione. La differenza dell’altro sarà, allora, la pietra di costruzione dell’unità, della comunione. Colui che ha fatto un altro cammino di umanità o la scoperta di altri valori può diventare una componente preziosa di quella cattedrale che si chiama la nostra unità. Così, i nostri emigranti italiani hanno saputo costruire insieme ad altri popoli differenti legami di stima, di fratellanza, di dignità reciproca. Si sono riconosciuti gli uni gli altri compagni di viaggio. Senza saperlo, pur nel loro piccolo, hanno costruito la comunione tra gli uomini: in loro hanno saputo unire popoli diversi. Risuona, allora, chiaramente la raccomandazione di Timothy Radcliffe, domenicano: «Abbiamo bisogno di entrare in dialogo con altre culture, con altre religioni per trascendere i limiti della nostra identità europea e diventare pienamente cattolici». Una vera sfida per i nostri tempi.

D - Nel libro si avverte un duplice significato del camminare: un cammino fisico, e un cammino verso una sorta di terra promessa da Dio, ovvero la fratellanza tra gli uomini...
R - La vera terra promessa di Dio si chiama comunione tra gli uomini, tra i popoli, tra i membri di una famiglia. È la realtà di cui in fondo siamo più assetati, il valore più prezioso sulla terra. Lo è soprattutto per noi italiani appassionati della contrapposizione, dello spirito polemico, contradditorio o dell’appartenenza stretta ed asfissiante ad un clan, a una regione o a un campanile... perché abituati dalla nostra cultura e dalla nostra storia. Nella triade ideale della rivoluzione francese“Liberté, egalité, fraternité” la fratellanza risulta il valore che più attende oggi ad essere realizzato. La nostra storia, poi, di emigranti all’estero ci ha educato a una fratellanza universale. Perchè il migrante è colui che è accolto ed accoglie, allo stesso tempo, è colui che impara a far posto all’altro, a un altro mondo, costruito da altri. Ma accogliere ciò che è differente o il nuovo rappresenta, in fondo, la nostra stessa grandezza. Perchè è un andare al di là di noi stessi, un invito a superarsi, ad aprire il nostro mondo e il nostro io. È preparare un avvenire nuovo, originale, costruito a più mani e benedetto da Dio... a partire dagli ultimi. “I miracoli sono compiuti dagli uomini uniti” ricorda un bel proverbio indiano.

D - Come missionario ha conosciuto molti migranti. Cosa c’è in comune tra loro?
R - Ho incontrato in Francia, a Ginevra, a Gibuti e a Londra tante comunità di emigranti differenti, di italiani, di portoghesi, di filippini... In tutti ho trovato l’ansia di conquistare la dignità di vivere oltre che il pane, un senso aggressivo della vita cioè la volontà di riuscire. Eppoi il senso della propria terra che diventa un sogno che li insegue ovunque, ma anche l’orgoglio di quello che si è diventati, la libertà di spirito di chi ha ampliato i propri orizzonti. Sorprende in loro una fede che diventa spesso un vero motore, un aiuto ad affrontare innumerevoli difficoltà e sorprese della loro avventura e... un cuore più grande del normale. Dovrà, infatti, imparare ad amare la terra di partenza e quella di accoglienza con lo stesso amore. “Cosa vuoi che ritorni a morire in Italia?” mi fa qualche anziano italiano “questa ormai è la mia patria!” Avvertono che la loro vita di emigranti si può riassumere in due parole: una lotta e una danza, qualcosa di duro, di amaro e di inimmaginabile che non potranno mai dimenticare, ma anche qualcosa di bello, che ha aperto l’orizzonte e il cuore. Li ha fatti rinascere in un mondo differente che ora sentono come proprio. Nel loro piccolo, trasformano il mondo. Ogni emigrante, infatti, fa riconciliare, senza saperlo, mondi distanti, visioni differenti della vita, valori e culture diversi, lanciando dei ponti nel mare aperto dell’umanità.

D - Per lei ha senso parlare di radici? E lei, sulla terra, si sente più ospite o pellegrino?
R - Mi vengono in mente le parole del vescovo di Recife, Helder Camara:”Quando la tua barca, da lungo tempo ormeggiata nel porto ti sembra prendere le sembianze di una casa; quando la tua barca comincia a mettere radici nell’immobilità del molo, va’ al largo! È necessario salvare a qualsiasi prezzo lo spirito viaggiatore della tua barca e la tua anima di pellegrino.” Per chi proviene dalla fede di Abramo come noi questo è verissimo. Nella nostra congregazione scalabriniana, che si dedica anima e corpo agli emigranti, è naturale capire l’importanza esistenziale, mentale e spirituale di questa dimensione: la mobilità. Il cambiamento, a qualsiasi livello, rinnova. L’uscire dalla propria terra, dalle nostre idee, dai nostri schemi, permette di incontrare l’altro in povertà e in disponibilità di spirito. Si scopre in noi, allora, per incanto un cuore fraterno, che vive delle radici a cui non rinuncia, ma anche del volo delle proprie ali. Si diventa un essere di frontiera, che ha la lunga pazienza di cucirsi sulla pelle un vestito di terre e di cieli nuovi, a spaziare nell’orizzonte dell’altro come una normalità. A vivere a fianco dell’altro con empatia, con lo spirito dell’ospite e del pellegrino, allo stesso tempo. È questo il miracolo dei nostri giorni.

D - Mons. Franco Costa dice del suo scrivere: “Trovo in questo narrare un'antropologia estremamente interessante e gustosa quasi a illustrare, sotto un profilo significativo, quella vita buona del Vangelo, alla quale i Vescovi italiani ci invitano ad EDUCARE con gli Orientamenti pastorali per il decennio corrente”. Cosa può aggiungere?
R - Semplicemente che questo libro può essere una ricetta di umanità, utile in molte parrocchie. Insegna a coltivare uomini di frontiera, uomini del domani che sanno aprire il cuore e la mente ai segni dei tempi, al mondo che cammina. Per non restare dei fondamentalisti senza saperlo, contenti di ripetere ciò che si è imparato una volta. “A vino nuovo otri nuovi,” raccomanda il Vangelo.

Sono presenti 2 commenti

Giorgio ha detto...

Ho trovato echi alle tue parole nelle poesie di , Elisa Kidané, eritrea, missionaria comboniana e giornalista:

" Migranti":
Muniti di sogni:
fedeli compagni di viaggio
e di utopie,
col fiato grosso
e piedi ormai stanchi,
seguono rotte
già sature di viandanti stremati,
e strappano
da mani rattrappite
dal freddo notturno del deserto,
frammenti di mappe inventate.
E vanno le genti,
da sempre,
in cerca di stelle polari e
terra nera,
ventre certo di vita,
rifugio sicuro di eutopia,
per costruire luoghi
fatti di sole caldo
e tenerezza lieve.
Ma a volte l'approdo agognato
nasconde insidie peggiori
di quelle scampate
per caso.
[...]
Ed è di nuovo buio sull'umanità
incapace di ricordare storie,
già scritte
[...]
Eppure vanno le genti
da sempre
in cerca
di mondi altri
per lasciare traccia
della speranza
che vive nel cuore
di ogni migrante
che da sempre intraprende viaggi
per salvare se stesso
e l'Umanità.


Sulla parola eutopia scrive la poetessa:
" per Don Tonino Bello l'eutopia era la buona terra, una terra di fratellanza e di pace, una terra possibile e realizzabile con l'impegno di tutti. Mentre l'utopia è spesso un sogno irraggiungibile, ma come dice lo scrittore Eduardo Galeano serve per camminare-"

«Non mi arrendo. / Cerco la speranza». «Da sempre / sulle spiagge di tutti i mondi / traccio parole intrise di sogni traditi / di calde utopie / e attendo l’onda amica / che non cancella / ma porta / echi di altre resistenze / e sigilla alleanze / di mondi diversi».

Ciao e grazie perchè offri generosamente ai lettori il cuore per toccare ciò che hai vissuto da padre, missionario scalabriniano, e da credente innamorato del dialogo.
Giorgio

Anonimo ha detto...

Grazie, Giorgio. You are great. God bless you. R

Inserisci un commento

Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.



___________________________________________________________________________________________
Testata giornalistica iscritta al n. 5/11 del Registro della Stampa del Tribunale di Pisa
Proprietario ed Editore: Fabio Gioffrè
Sede della Direzione: via Socci 15, Pisa