mercoledì, settembre 21, 2011
Intervista a Luca Ragazzi, uno dei due autori del film che ha sbancato l'ultimo Milano Film Festival, un documentario che è un gesto d'amore e un atto d'accusa

PeaceReporter - In viaggio dal Piemonte alla Sicilia, lungo mille chilometri di strade e altrettante ragioni per odiare questo Paese, alla ricerca di quelle, altrettanto numerose, per amarlo. Questo è Italy, Love it or Leave it, il documentario che ha sbancato l'edizione del Milano Film Festival (Premio del Pubblico e Premio della Giuria) conclusasi domenica scorsa e che si preannuncia un lungometraggio di culto per chiunque voglia capire un Paese che sta costringendo un'intera generazione ad emigrare.

Peacereporter ha parlato con Luca Ragazzi, autore del film insieme al suo compagno Gustav Hofer, il giorno dopo il trionfo milanese. Quello che segue è un estratto dell'intervista. Qui, la versione integrale. Domani, alle 23.55 il documentario verrà trasmesso da Rai Tre con un minutaggio ridotto (52 minuti invece dei 76 complessivi) e un altro titolo, Cercasi Italia disperatamente.
Com'è nata l'idea di questo documentario?

È nata mentre giravamo l'Italia per presentare il nostro lavoro precedente (Improvvisamente, l'inverno scorso, ndr) che raccontava il lato nero del Paese, la scoperta di questo rigurgito di fascismo, nazionalismo e omofobia e dove raccontavamo, noi, coppia gay protagonista del film, cosa accadeva mentre il governo Prodi cercava di lavorare ad una legge sui Dico: la messa in moto della macchina della propaganda da parte del Vaticano e della destra omofoba. Raccontammo insomma quella battaglia persa. Portando il film in giro nelle piazze d'Italia, ospiti di associazioni culturali, rassegne ma anche di privati che si erano adoperati per farlo conoscere, abbiamo potuto constatare con mano quanto invece gli italiani fossero tutt'altro che fascisti reazionari e omofobi ma fossero molto più avanti della classe politica che li dovrebbe rappresentare, molto più generosi, molto più moderni. Per inciso, soprattutto nel sud Italia abbiamo trovato un'apertura mentale e una generosità che credevamo impensabili. Questa scoperta ci ha riconciliati col nostro Paese. Se lavorando al primo documentario abbiamo odiato l'Italia, promuovendolo ce ne siamo reinnamorati e quindi ci siamo detti che magari, in un eventuale secondo film, avremmo potuto raccontarne le cose più belle.

Il titolo tuttavia dà l'idea di un amore non corrisposto, di una fuga come destino inevitabile.

Il film gioca fino all'ultimo con questa ambiguità ma c'è poi una sorpresa finale che non voglio svelare. L'idea di partenza comunque era quella di fare un film affettuoso verso l'Italia, nel quale ci siamo io e Gustav, con i nostri caratteri molto diversi. Lui, di Bolzano, madrelingua tedesca, si sente poco italiano e vuole convincermi ad andare a vivere a Berlino e quindi mi fa vedere tutte le cose che non funzionano da noi. Io, incalzato, mi do come un colpo di reni e decido di fargli vedere le cose belle. E' una partita a tennis in cui uno può decidere se parteggiare per una parte o per l'altra. Però alla fine è un film affettuoso verso questo Paese che si è saputo sempre risollevare nei suoi momenti di crisi e ha anticorpi sorprendenti che non troveresti altrove.


Una cosa che colpisce è che, a differenza di documentari recenti sul nostro Paese, il tema di Berlusconi e del berlusconismo c'è ma non è il baricentro della narrazione. Insomma, non ci avete giocato più di tanto.

Io non volevo parlarne, quasi che solo il nominarlo portasse sfiga. Purtroppo non è possibile raccontare l'Italia di oggi senza parlare di lui, senza dire ciò che significa e ciò che ha significato. Ma a quel punto, decidendo di raccontare delle storie, dei fatti, c'era il rischio di collocare il film in un contesto preciso, di renderlo datato e troppo legato alla cronaca di questi ultimi sei mesi in Italia. Ci siamo assunti questa responsabilità, perché ci sono sembrate cose troppo importanti. Non potevamo non raccontare, non includere in questo viaggio quello che stava e sta succedendo al Paese. E quindi si, il film forse sarà datato, magari tra un anno e mezzo la gente ci dirà "che palle, non vogliamo più sentir parlare del Bunga Bunga", però a noi sembrava assolutamente sacrosanto raccontare anche questo. Ma lo abbiamo fatto in un modo ironico, cercando di esorcizzarlo, ridendone come si può ridere di qualcosa che ci accompagna nella nostra vita da 20 anni a questa parte.


Nel farvi i complimenti per la vittoria, chiedo: ve l'aspettavate?

Ma assolutamente no, e lo dico al di là di ogni falsa modestia e di risposta di prammatica; veramente non c'aspettavamo nessuna vittoria. Siamo stati inclusi nel concorso milanese all'ultimo, quando avevano già chiuso il programma, e non avremmo partecipato se uno dei selezionatori, che è anche il vicedirettore, al quale avevamo mandato il nostro film, non avesse voluto includerci assolutamente. Ma noi ci sentivamo come cenerentola al gran ballo. Eravamo già contenti di essere al Milano Film Festival, un festival bellissimo, con sale sempre piene di giovani, che non aderisce a logiche di giochi di promozione, star e starlette ecc...Quando abbiamo fatto le proiezioni e sono andate benissimo – allo Strehler c'erano mille persone in sala e altrettante fuori – eravamo super contenti. Quando ci hanno chiamati sul palco per il premio del pubblico, eravamo al settimo cielo e quando, tornati a posto, mentre chiacchieravamo, abbiamo sentito di nuovo i nostri nomi non abbiamo capito nemmeno cosa stesse succendendo. Nel frattempo era salita la giuria e aveva assegnato il premio al film vincitore. Io ero imbarazzato, volevo scusarmi pubblicamente, non mi sembrava giusto perché trovo immorale prendere due premi allo stesso festival però la giuria ci ha rassicurati. Oggi camminiamo ad un metro da terra, perché dopo due anni passati a girare e montare l'aver finalmente consegnato il film al pubblico trovando un'accoglienza così calorosa ci rende veramente orgogliosi.

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