In esclusiva per La Perfetta Letizia, le fiabe di Silvio Foini
La padrona della casa di campagna era una distinta signora di cinquant’anni che viveva coltivando fragole e lamponi molto richiesti dai fruttivendoli del circondario. Erano prodotti di qualità superiore, gustosissimi e soprattutto coltivati senza uso di concimi chimici e antiparassitari. Per quella ragione erano i preferiti dalle mamme per i propri bambini.
Va da sè che Amilcare in quella casa non soffrisse affatto la fame. V’erano sempre per lui scatolette di cibo per gatti davvero da leccarsi i baffi, preparati con salmone, cinghiale, anatra e tanti sapori degni dei migliori chef. Tuttavia l’istinto felino alla caccia del micione aveva sempre la prevalenza: nulla di quanto elencato sopra poteva valere per lui il gusto di un bel topolino tenero catturato dopo un rapido agguato o un bell’uccellino fatto suo con un portentoso balzo!
La tranquilla vita da gatto che conduceva nella fattoria venne sconvolta irrimediabilmente quando la signora Norma portò a casa un meraviglioso pappagallino dalla livrea sgargiante. Per Amilcare divenne un chiodo fisso farsene un succulento boccone. Nei suoi sogni di gatto lo pregustava, e a volte si ridestava di soprassalto con l’acquolina in bocca. Quanto doveva essere buono!
La padrona aveva sistemato il variopinto pennuto su di un alto trespolo, irraggiungibile anche con un eccezionale balzo. Amilcare le aveva provate tutte. Aveva cercato di raggiungere il trespolo saltando da una sedia accanto, aveva preso la rincorsa sul lungo tavolo della cucina… ma tutti questi tentativi s’erano dimostrati vani! Gaia, questo il nome imposto dalla signora Norma alla pappagallina, dall’alto del suo trespolo pareva irriderlo facendo curiosi versi e capriole acrobatiche. Il gatto, sornione, rimaneva in attesa di un passo falso per ghermire quello stupido uccello. “Vedrai che prima o poi cadrai e io di te farò un boccone!”, gli diceva nel gergo dei mici con soffi e miagolii colmi di cattive intenzioni.
Fatto sta che Amilcare prese a dimagrire visibilmente, non assaporava più nemmeno i gustosi piattini che Norma gli ammanniva. Lui desiderava ardentemente solo quel maledetto pennuto. La padrona preoccupata lo portò dal veterinario che lo visitò accuratamente senza tuttavia saper indicare la causa di quell’improvvisa inappetenza. Gli diagnosticò alla fine uno stato ansioso da stress ambientale e gli fece una dolorosa iniezione. Amilcare tornò a casa chiuso nel suo trasportino meditando vendetta. Atroce vendetta contro quella smorfiosa pappagallina sempre sul trespolo a prenderlo in giro: “Tanto non mi prendi! Non mi prendi, sacco di pulci, brutto gattaccio antipatico!”.
Trascorsero altre due settimane e Amilcare stava ormai per deporre il pensiero di mangiarsi quell’odioso uccello. Lo teneva comunque costantemente d’occhio. La favorevole occasione avrebbe potuto presentarsi da un momento all’altro. In quei lunghi pomeriggi d’autunno, Amilcare se ne stava accoccolato sul tappeto sotto il trespolo e si distraeva guardando la televisione dove, a certi orari, veniva trasmesso un cartone animato che raccontava le disavventure di un suo parente stretto, certo gatto Silvestro alle prese con un antipatico canarino di nome Titti. “ Guarda – considerava amaramente – sembra la mia storia con Gaia. Silvestro non riesce mai a catturare in un modo o nell’altro quel canarino. Noi gatti a volte, siamo davvero sfortunati. Sarà il nostro destino”.
La padrona di casa, la signora Norma, aveva una nipote che ogni tanto veniva a farle visita. Quel giorno costei, reduce da un bel viaggio in Brasile con il marito, venne appunto a casa della zia portandole in dono una statuetta di metallo colorato rappresentante un pappagallino esattamente eguale a Gaia. Non immaginate la felicità di Norma. Amava moltissimo oggetti da porre sul ripiano dei mobili sopra a dei preziosi centrini di pizzo che ella stessa, con assoluta perizia, realizzava all’uncinetto. Ringraziò moltissimo la cara nipote e pose la statuetta sul mobile del salotto. “Guarda che caso cara zia – aveva esclamato la giovane sorpresa – sembra proprio la statuetta della tua Gaia. Curioso davvero!”.
Il giorno seguente Norma, per fare le pulizie di casa, aveva spostato il trespolo e Gaia in un’altra stanza e il caso aveva voluto che il gatto Amilcare non fosse presente alla visita della sera precedente della nipote e non avesse quindi potuto vedere quel che le aveva regalato. In quel momento era stato impegnato con un suo socio a tendere l’agguato a un grosso topone arrivato nel granaio non si sapeva da quando né da dove. Orbene, nella penombra della stanza in cui era entrato con un agile balzo attraverso la finestra, vide sul mobile l’oggetto del proprio smodato desiderio: il pappagallo Gaia, stranamente immobile. “Questa volta certo non mi sfuggirà”, pensò avvicinandosi di soppiatto, cercando di evitare anche il più piccolo rumore. Quando fu a nemmeno di un metro e mezzo dal pappagallino spiccò un rapidissimo balzo e le sue acuminate zanne si abbatterono con violenza inaudita sul colorato pennuto ma... Amilcare gridò per il tremendo dolore: i suoi denti si spezzarono con un sordo rumore sull’uccellino di metallo. Miagolò disperato correndo per tutta la casa cercando aiuto. Norma era in giardino e non udì quel disperato miagolio e seguitò a innaffiate le sue fragole. Solo Gaia, appollaiata sul suo trespolo, al sicuro, si contorceva dalle risate!
Amilcare, coda fra le gambe, bocca senza più nemmeno un dente, abbandonò la casa dove era stato felice e si diresse verso la città rifugiandosi presso quell’altro suo parente stretto di nome Silvestro, divo della tv, ove ottenne a sua volta un posto come cartone animato. Caro gatto Amilcare, non sapevi dunque che chi troppo vuole nulla stringe… e a volte si fa anche male?
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