lunedì, gennaio 17, 2011
Il clima di questi ultimi tempi riporta la mente agli anni ‘70. Non certo per generare uno sciocco parallelismo, ma perché la violenza di allora fu per certi aspetti inaudita e inspiegabile. Si auspica così che nessuna lacrima debba esser versata in nome di beceri ideali o di altre stolte motivazioni. La storia è davvero magistra vitae, basta rispolverarla spesso…

del nostro Stefano Buso

Nessuna città italiana ha vissuto, negli anni ‘70, un periodo di violenza come Milano. Epoca drammatica che gli storici hanno definito “anni di piombo” a testimoniare la recrudescenza di numerevoli episodi delittuosi che ferirono l’Italia e il capoluogo lombardo. Finita la stagione del ’68 e tutte le attese di cambiamento sociale, un po’ per volta le ideologie politiche iniziarono ad essere l’unico credo di una buona fetta della gioventù. Inoltre, aspetto di rilievo, s’innescarono le prime stolte estremizzazioni. Per l’appunto “pane e politica”, come si affermava allora, mostrando la consistente presenza della dottrina ideologica nelle scuole, nelle fabbriche e in diversi apparati istituzionali del tempo. Dall’iniziale esaltazione al terrorismo, il passo fu breve. Alcuni sostengono che la stagione del terrore prese il via con la strage di piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969 a Milano. Quel giorno una bomba esplose nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura, provocando la morte di diciassette persone e il ferimento di altre ottantotto. La città e la nazione rimasero esterrefatte davanti a tale evento. Purtroppo, quello che agli occhi dell’opinione pubblica apparve come un episodio cupo era l’alba di una sequela di azioni spietate che imperversarono in Italia e in particolare nella città meneghina fino all’inizio degli anni ‘80.

Milano 17 maggio 1973: verso le 11 del mattino, in Via Fatebenefratelli non lontano dalla Questura, si stava svolgendo la cerimonia in memoria del commissario Luigi Calabresi, assassinato dai terroristi esattamente l’anno prima, il 17 maggio del ‘72. Durante le esequie, esplose tra gli astanti un ordigno. Le vittime furono quattro e i feriti oltre cinquanta. In pochissimo tempo la tensione e la paura salirono alle stelle, e l’odio iniziò a serpeggiare in città come un virus devastante.

Ad esserne contagiati furono soprattutto i giovani che si contrapponevano in schieramenti e fazioni. Gli anarchici, i rossi… e poi i neri. A raccontarla sembra un eccesso grottesco stilato per render la cronaca appetibile, però le cose andarono effettivamente così. Ancor oggi, percorrendo le vie di Milano, agli angoli di strade e viali si possono osservare lapidi che riportano i nomi di tanti (troppi) giovani vittime di agguati perpetrati da altri loro coetanei. Lo spartiacque era unicamente il colore politico. I fatti di ferocia e prevaricazione furono tanti, costellati da lutti e dolore. Oltre a giovani e studenti perirono servitori dello stato, poliziotti (proprio come il vice commissario Luigi Calabresi) e tante altre persone talvolta coinvolte per pura fatalità.

Tra i morti rimasti sull'asfalto a Milano (e non solo) è impossibile naturalmente non ricordare i magistrati e gli uomini di legge che con coraggio lavorarono sino alla fine, sprezzanti del pericolo e delle minacce. Il 19 marzo 1980 per esempio fu ucciso da un commando di Prima Linea il magistrato Guido Galli. Nel delirante comunicato riportato dal Corriere della Sera che rivendicava l’assassinio, si affermava che Galli era stato ucciso perché vicino "alla frazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona per ricostruire l'Ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente”.

In questa assurda escalation di morti ammazzati e vittime del terrorismo, i cronisti pagarono un tributo come poche altre categorie professionali. Il motivo per cui si voleva colpire i giornalisti risiedeva nella loro indubbia capacità di produrre informazione e libero pensiero democratico. Secondo la logica dei terroristi, annientare un giornalista non solo seminava panico e angoscia, ma era un monito esplicito per gli altri colleghi. A quel tempo, fra loro, c’era un giovane ma già affermato cronista, Walter Tobagi. Egli fu ucciso il 28 maggio 1980 dal gruppo terroristico di estrema sinistra XXVIII marzo formatosi a Milano proprio in quel mese. La sua morte seguiva di soli 100 giorni quella di Guido Galli.

A distanza di oltre trent’anni quegli omicidi hanno lasciato una cicatrice profonda. E non certo per le targhe commemorative affisse sui muri della città. Molti dei ragazzi che inseguirono l’utopia della lotta armata, sperando così di cambiare il mondo a colpi di spranghe e mitragliette, si sono dissociati e pentiti. Serve il pentimento? Riporta in vita chi è caduto in quegli scontri fatali? Morti che alimentano la memoria di orfani, fratelli, genitori e colleghi che videro un pezzo della loro vita frantumarsi sotto la scure dell’ideologia. E non importa se rossa, nera o di un altro colore! Che i defunti di quel lungo decennio servano a ricordare che il mondo e le idee non devono essere sconfitte a colpi di pistola, ma con il dialogo e il confronto, da sempre pilastri fondamentali della società civile. Anche quella italiana.

Sono presenti 4 commenti

Anonimo ha detto...

Articolo di disarmante attualità, ben scritto

anna maria

laura rangoni ha detto...

Concordo: la violenza genera solo violenza. e ildialogo è (o dovrebbe essere) alla base di ogni convivenza civile

Nàima Tomaselli ha detto...

Auguriamoci oggi che tutto questo non debba ridiventare l'attualità perchè vorrebbe dire che l'uomo non ha imparato nulla dai suoi errori...

Anonimo ha detto...

....leggo spesso e volentieri questo
bel giornale ma questo
post mi era sfuggito *|*
quoto!!! C.

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