sabato, gennaio 15, 2011
Il nostro corrispondente da Londra, Renato Zilio, ci descrive il significato del Natale nelle comunità migranti in Inghilterra

A casa di Elisa tra il lavoro, gli impegni, le due figlie e i nipotini, la festa non è proprio di casa. Ciononostante, i preparativi per il Natale sono stati tanti, incoraggiati dalle festività annunciate prematuramente nei negozi e nelle strade di Londra già alla fine di ottobre. “Business as usual”, diresti. Prima preoccupazione per una festa è sempre la tavola. Il cibo è un aspetto importante per chi emigra: i sapori e le specialità di casa sono da sempre legati alla memoria, alla terra e all’infanzia. L’emigrazione italiana d’oltremanica di solito produce il vino artigianalmente facendo importare le uve direttamente dal sud Italia. “Ti piace il nostro vino?” è la domanda rituale dei nostri italiani nel Paese della birra, alla quale è d’obbligo rispondere: “Senz’altro, ottimo!”, fosse esso anche di dubbia qualità. Per noi è sempre il passaporto della tavola.

Mettersi a tavola insieme esprime il senso della convivialità, della vita in comune, della famiglia, dimensione essenziale della nostra cultura. Soprattutto all’estero, immersi in una cultura come questa dove si mangia per strada, al lavoro, in piedi o camminando. Ma è anche occasione di scoprire l’originalità di una famiglia che si è allargata a fisarmonica: ne fa parte il genero inglese, i nipoti che parlano quasi esclusivamente inglese, il cane, ormai un membro della famiglia. Elisa, così, prepara il pranzo di Natale per tutti. A sera, invece, saranno a casa dei suoceri: abitudini inglesi, turkey and potatoes, piena libertà nel sedersi o nel mangiare, nessuna formalità. Due mondi diversi, ma uguale soddisfazione nel frequentarli. I nostri italiani vivono spesso così, in un equilibrio instabile tra due universi.

Quello che colpisce è il nuovo “spirito di famiglia”. Le famiglie italiane si sono spesso spezzate e ricomposte con altri elementi etnici. Hanno acquistato un’apertura di orizzonte impensabile da noi, in patria. Ci si sposa, allora, con un inglese, con un pakistano, con una spagnola o un lituano. È questa, a volte, la difficile e fatale dinamica dell’emigrazione: una grande forza di rottura, ma anche una sorprendente capacità di composizione. “Proprio quando si è costretti a percorrere una via, la libertà diventa più grande”, rifletterebbe Saint-Exupéry. Tradizione e libertà spesso in emigrazione si ritrovano e si intrecciano tra di loro.

Al Christmas party organizzato invece al Centro Scalabrini di Londra i discorsi viaggiano sempre tra due sponde, tra Mediterraneo e Mar del Nord. Quest’anno, ad esempio, la novità è il saluto del Papa direttamente sulla BBC, che ha preceduto perfino - te lo sottolineano loro - l’augurio ufficiale della Regina. Comprendi, allora, che è l’onda lunga della “papal visit” di settembre. Un vero successo, sia negli spiriti, che negli stereotipi. Ma si parla anche di Italiani della madrepatria. Qualcuno paragona la grande libertà e tolleranza del mercato inglese con il nostro, “un mercato ingessato in una terra e una mentalità costituite da piccoli feudi”. Qualche altro si dilunga sull’arte della lamentela, spiegando nel suo import-export che il cliente nostrano – quasi per uno sport nazionale – tende sempre a lamentarsi. L’inglese lo fa per poche cose, ma serie e concrete. Oppure ti parlano di eleganza italiana, trovandovi nascoste spesso insicurezza e ostentazione. Comprendi, in fondo, il valore dello sguardo strategico di chi sta al confine delle culture. E lo fa con quell’occhio tranquillo del compratore che senza acrimonia sa apprezzare lucidamente la merce, aggiungendovi anche un pizzico di humour. “Humour, mankind’s greatest blessing!” aggiungerebbero all’inglese. Sì, la più grande benedizione sulla terra.

Al Centro interculturale Scalabrini tre sono state le grandi celebrazioni che hanno accompagnato la notte di Natale ed è come se la chiesa fosse diventata un’enorme tenda che accoglie ognuno nella propria originalità. I filippini con le loro dolcissime nenie alle 9.00 di sera, mentre, più sensibili alla tradizione, con i rintocchi della mezzanotte in punto, la comunità italiana e quella portoghese iniziano i loro canti. Poi, con l’atteso arrivo dei pastori e le tradizionali e lunghe melodie tipiche di Madeira, i portoghesi continuano fino alle 3.00 del mattino. Naturalmente, riuniti attorno a una tradizionale e bollente “canja”, una squisita zuppa da pastori la cui ricetta rimane ancora un mistero. Per gli italiani, invece, una fetta di panettone e un prosecco ghiacciato coronano la celebrazione, stappando reciprocamente gli auguri. Interessante il commento di Padre Pietro Celotto, responsabile del Centro: “Tre Messe della notte che una volta non bastavano agli Italiani , ora in tre lingue e tradizioni diverse, cantano quasi contemporaneamente nella notte santa il Gloria. Come se avessero trovato la loro casa lontano dalla propria: è stato Natale per tutti”. Cantava un tempo Giorgio Gaber “Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire ‘noi’.” E ti sembrava di essere alla grotta di Betlemme, casa comune di umanità, dove incontrare pastori, angeli, animali, curiosi e re.

“Esistere è resistere” ricorda allora mons. Gonella durante la liturgia natalizia sottolineando i valori che sostenevano l’avventura dei nostri migranti dal giorno del loro addio a quanto amavano. “Gli uomini che camminavano nelle tenebre hanno visto una grande luce”. Ed era, in fondo, la loro storia sacra. Come la speranza era veramente una luce che li animava mentre la fiducia era ciò che li sosteneva nell’incontro con una società tanto differente. Si potrebbe concludere con queste due parole diventate abituali qui in terra inglese, God bless! Sì, tutto si è trasformato in benedizione, anche le difficoltà, la solitudine, le incomprensioni o i contrattempi. Il mondo - grazie a loro, migranti di un tempo - si è fatto più fraterno e più unito. Chissà, non sarà questo il loro miracolo di Natale?

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