Il processo di estrazione delle sabbie bituminose sta avendo un impatto devastante sull’ambiente e sulla salute della popolazione dell'Alberta, in Canada. Forti incidenza del cancro nell'area e presenza di metalli pesanti anche nelle acque. Ma la gran parte delle ricerche scientifiche sono curate proprio da quelle società petrolifere che operano nella zona.
Qualenergia - La corsa al petrolio non convenzionale si sta rivelando sempre più devastante per l’ambiente. Il paesaggio del Canada, lo stato con la maggiore concentrazione di sabbie bituminose, si sta trasformando in una distesa di miniere.bLe tar sands (così vengono definite in inglese) del Canada, secondo alcuni costituirebbero il 15% delle riserve mondiali di greggio, seconde dopo quella dell’Arabia Saudita. Si tratta di oltre 170 miliardi di barili di bitume distribuiti su una superficie di 4 milioni di ettari. Un “tesoro” che si concentra nella regione meridionale dell’Alberta, dove negli ultimi anni sono spuntate decine di miniere e, dal 1995 al 2008, la produzione è cresciuta da 482.000 a 1,3 milioni di barili al giorno e si stima possa raddoppiare entro il 2020.
“Il nostro mondo è cambiato nel 2002 – racconta Janet Annesley, vicepresidente del reparto comunicazione per l’Associazione canadese dei produttori di petrolio – quando il Dipartimento per l’Energia degli Usa dichiarò ufficialmente che la sabbie bituminose dell’Alberta dovevano essere considerate come una fonte di energia economicamente di valore e tecnicamente sfruttabile. Da un giorno all’altro quella che era considerata una risorsa difficile si è trasformata in una quota importante delle riserve petrolifere mondiali”.
Attualmente nell’Alberta operano decine di compagnie, comprese la francese Total, la anglo-olandese Shell e la Bp. Ma il processo di estrazione, sta avendo un impatto devastante sull’ambiente e sulla popolazione locale. La zona più sfruttata è quella del fiume Athabasca che costituisce anche la principale fonte idrica di un’attività che richiede in media 3 metri cubi d’acqua per ogni metro cubo di greggio prodotto. Le operazioni necessarie per separare il bitume dai materiali superflui vengono eseguite all’interno dei cosiddetti tailing ponds, pozze artificiali in cui vengono accumulati gli scarti di lavorazione. Questi laghetti pieni di metalli pesanti e facilmente soggetti a “perdite”, nel 2008 coprivano una superficie di 130 kmq. Il paesaggio boreale tipico di queste zone è fortemente minacciato. Centinaia di ettari di foreste sono stati attaccati dalle ruspe per fare spazio alle infrastrutture necessarie alle attività estrattive. Inoltre, per trasformare questo materiale solido in un liquido, per ogni barile, viene prodotta una quantità di gas serra da 2 a 4 volte superiore a quella generata dal processo di produzione del petrolio convenzionale.
E non mancano le conseguenze sulla popolazione: nel villaggio di Fort Chipewyan si registra un’incidenza di tumori del 30% al di sopra dei valori medi nazionali secondo il rapporto Cancer Incidence in Fort Chipewyan, Alberta 1995-2006 (pdf) pubblicato nel 2009 dall'Alberta Cancer Board, Division of Population Health and Information Surveillance. Tra gli abitanti della zona c’è molta preoccupazione e diverse associazioni ambientaliste e comunità indigene si stanno mobilitando.
Intanto si cerca di quantificare il danno: secondo uno studio condotto dall’Università dell’Alberta e dalla Queen’s University di Kingston, nei corsi d’acqua e negli accumuli nevosi delle zone interessate dalle attività estrattive, si riscontra una maggiore presenza di mercurio e tallio. La stessa ricerca ha dimostrato che nell’acqua e nella neve raccolte nei pressi delle miniere di tar sands, sono presenti cadmio, rame, piombo, mercurio, nichel, argento e zinco in quantità superiori agli standard nazionali. “I politici locali continuavano a negare – spiega Peter Hodson, uno degli autori dello studio, docente di ecotossicologia alla Queen’s University – Ma naturalmente questo è ridicolo: qualsiasi attività umana produce un impatto sull’ambiente. Figuriamoci un’operazione di quella portata! Il punto è che non ci sono sufficienti controlli e le ricerche non raccontano la situazione reale”.
L’estate scorsa sulla stampa locale circolava la notizia che il governo avesse fatto distruggere i risultati di 18 mesi di ricerca che avrebbero dimostrato gli effetti nocivi dell’acido naftenico, un derivato della lavorazione della sabbia bituminosa, che il governo centrale ha invece deciso di non includere nella lista delle sostanze tossiche e pericolose prodotte da processi industriali.
“Al momento la maggior parte delle ricerche scientifiche sull’argomento è finanziata dall’industria del settore – prosegue Peter Hodson – È come mettere una volpe a guardia delle galline. E allo stesso tempo il governo, che si dichiara garante dell’ambiente, sta facendo massicci investimenti nell’estrazione di tarsands. Non c’è dubbio che ci sia un conflitto di interessi. È quindi necessario che le ricerche nel campo vengano sottoposte al controllo di enti scientifici indipendenti, non riconducibili né alle compagnie coinvolte, né alle amministrazioni locali. Soltanto in questo modo la gente potrà fidarsi dei dati che emergono dalle ricerche”.
Maurita Cardone
Qualenergia - La corsa al petrolio non convenzionale si sta rivelando sempre più devastante per l’ambiente. Il paesaggio del Canada, lo stato con la maggiore concentrazione di sabbie bituminose, si sta trasformando in una distesa di miniere.bLe tar sands (così vengono definite in inglese) del Canada, secondo alcuni costituirebbero il 15% delle riserve mondiali di greggio, seconde dopo quella dell’Arabia Saudita. Si tratta di oltre 170 miliardi di barili di bitume distribuiti su una superficie di 4 milioni di ettari. Un “tesoro” che si concentra nella regione meridionale dell’Alberta, dove negli ultimi anni sono spuntate decine di miniere e, dal 1995 al 2008, la produzione è cresciuta da 482.000 a 1,3 milioni di barili al giorno e si stima possa raddoppiare entro il 2020.“Il nostro mondo è cambiato nel 2002 – racconta Janet Annesley, vicepresidente del reparto comunicazione per l’Associazione canadese dei produttori di petrolio – quando il Dipartimento per l’Energia degli Usa dichiarò ufficialmente che la sabbie bituminose dell’Alberta dovevano essere considerate come una fonte di energia economicamente di valore e tecnicamente sfruttabile. Da un giorno all’altro quella che era considerata una risorsa difficile si è trasformata in una quota importante delle riserve petrolifere mondiali”.
Attualmente nell’Alberta operano decine di compagnie, comprese la francese Total, la anglo-olandese Shell e la Bp. Ma il processo di estrazione, sta avendo un impatto devastante sull’ambiente e sulla popolazione locale. La zona più sfruttata è quella del fiume Athabasca che costituisce anche la principale fonte idrica di un’attività che richiede in media 3 metri cubi d’acqua per ogni metro cubo di greggio prodotto. Le operazioni necessarie per separare il bitume dai materiali superflui vengono eseguite all’interno dei cosiddetti tailing ponds, pozze artificiali in cui vengono accumulati gli scarti di lavorazione. Questi laghetti pieni di metalli pesanti e facilmente soggetti a “perdite”, nel 2008 coprivano una superficie di 130 kmq. Il paesaggio boreale tipico di queste zone è fortemente minacciato. Centinaia di ettari di foreste sono stati attaccati dalle ruspe per fare spazio alle infrastrutture necessarie alle attività estrattive. Inoltre, per trasformare questo materiale solido in un liquido, per ogni barile, viene prodotta una quantità di gas serra da 2 a 4 volte superiore a quella generata dal processo di produzione del petrolio convenzionale.
E non mancano le conseguenze sulla popolazione: nel villaggio di Fort Chipewyan si registra un’incidenza di tumori del 30% al di sopra dei valori medi nazionali secondo il rapporto Cancer Incidence in Fort Chipewyan, Alberta 1995-2006 (pdf) pubblicato nel 2009 dall'Alberta Cancer Board, Division of Population Health and Information Surveillance. Tra gli abitanti della zona c’è molta preoccupazione e diverse associazioni ambientaliste e comunità indigene si stanno mobilitando.
Intanto si cerca di quantificare il danno: secondo uno studio condotto dall’Università dell’Alberta e dalla Queen’s University di Kingston, nei corsi d’acqua e negli accumuli nevosi delle zone interessate dalle attività estrattive, si riscontra una maggiore presenza di mercurio e tallio. La stessa ricerca ha dimostrato che nell’acqua e nella neve raccolte nei pressi delle miniere di tar sands, sono presenti cadmio, rame, piombo, mercurio, nichel, argento e zinco in quantità superiori agli standard nazionali. “I politici locali continuavano a negare – spiega Peter Hodson, uno degli autori dello studio, docente di ecotossicologia alla Queen’s University – Ma naturalmente questo è ridicolo: qualsiasi attività umana produce un impatto sull’ambiente. Figuriamoci un’operazione di quella portata! Il punto è che non ci sono sufficienti controlli e le ricerche non raccontano la situazione reale”.
L’estate scorsa sulla stampa locale circolava la notizia che il governo avesse fatto distruggere i risultati di 18 mesi di ricerca che avrebbero dimostrato gli effetti nocivi dell’acido naftenico, un derivato della lavorazione della sabbia bituminosa, che il governo centrale ha invece deciso di non includere nella lista delle sostanze tossiche e pericolose prodotte da processi industriali.
“Al momento la maggior parte delle ricerche scientifiche sull’argomento è finanziata dall’industria del settore – prosegue Peter Hodson – È come mettere una volpe a guardia delle galline. E allo stesso tempo il governo, che si dichiara garante dell’ambiente, sta facendo massicci investimenti nell’estrazione di tarsands. Non c’è dubbio che ci sia un conflitto di interessi. È quindi necessario che le ricerche nel campo vengano sottoposte al controllo di enti scientifici indipendenti, non riconducibili né alle compagnie coinvolte, né alle amministrazioni locali. Soltanto in questo modo la gente potrà fidarsi dei dati che emergono dalle ricerche”.
Maurita Cardone
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