La pace in Terra Santa è difficile ma possibile, non bisogna perdere la speranza: è questo in sintesi quanto ha detto ieri a Roma il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal, che oggi in Vaticano partecipa alla terza riunione preparatoria del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente che si svolgerà dal 10 al 24 ottobre sul tema “La Chiesa Cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”. Il servizio di Sergio Centofanti (ascolta).
Radio Vaticana - Il patriarca di Gerusalemme sottolinea con dolore la situazione di conflittualità permanente in Terra Santa. E ricorda il ruolo particolare dei cristiani. Ascoltiamolo al microfono di Tracey McLure:
“Un’intera generazione di palestinesi e d’israeliani è nata e cresciuta con questa mentalità di conflitto e di guerra. E’ diventato sempre più difficile immaginare un futuro di convivenza. E’ più facile demonizzare gli altri; più difficile è perdonare. Il nostro linguaggio di cristiani è invece questo: perdonare e ricominciare da zero. Altri, però, non vogliono saperne nulla di perdonare. E anche se siamo considerati ‘imbecilli’ questo resterà il nostro linguaggio, perdonare: così noi siamo ‘pazzi’ e continuiamo ad essere ‘pazzi’ e continuiamo a perdonare”.
Nonostante tutto il patriarca di Gerusalemme esprime una convinzione:
“Una convinzione interna … che un giorno arriverà la pace per tutti e con tutti si intendono ebrei, musulmani e cristiani, perché credo che nessuno possa godere di questa pace da solo: mai!”.
Il patriarca ha infine parlato delle responsabilità della pace e di cosa si può e si deve fare per porre fine alle violenze:
“E’ vero che i due popoli sono colpevoli in prima linea – sia il popolo palestinese che quello israeliano – ma io do un po’ di colpa anche alla Comunità internazionale, che dovrebbe intervenire e fare qualcosa. Poi, se Israele vuole la pace, francamente, deve pagare il prezzo e, quindi, ritirarsi dai Territori occupati lasciando vivere i palestinesi, accettando la soluzione di due Stati, di cui tutti parlano. Ma pare che adesso Israele abbia più paura della pace che non della guerra. Perché pace significherebbe chiudere la questione di Gerusalemme, pace significherebbe risolvere la questione di tre milioni di rifugiati; pace significherebbe fissare delle frontiere per Israele. E Israele è l’unico Paese del mondo che attualmente non ha frontiere. Non sappiamo fin dove arriva, non lo sappiamo: possono entrare ed uscire con le jeep e con i militari dove vogliono. Gli ebrei hanno il diritto di ritornare in patria e tutti quanti sono i benvenuti, ma i palestinesi non hanno nessun diritto di ritornare. E poi, se ci fosse anche per i palestinesi il diritto di tornare, io credo che ritornerebbe il 5-10 per cento, al massimo. Io non credo che un palestinese che si sia ben sistemato in Canada lascerà tutto per ritornare: forse alcuni dei campi rifugiati torneranno. Per questo non dobbiamo aver paura se il diritto al ritorno fosse esteso anche ai palestinesi”.
“Un’intera generazione di palestinesi e d’israeliani è nata e cresciuta con questa mentalità di conflitto e di guerra. E’ diventato sempre più difficile immaginare un futuro di convivenza. E’ più facile demonizzare gli altri; più difficile è perdonare. Il nostro linguaggio di cristiani è invece questo: perdonare e ricominciare da zero. Altri, però, non vogliono saperne nulla di perdonare. E anche se siamo considerati ‘imbecilli’ questo resterà il nostro linguaggio, perdonare: così noi siamo ‘pazzi’ e continuiamo ad essere ‘pazzi’ e continuiamo a perdonare”.
Nonostante tutto il patriarca di Gerusalemme esprime una convinzione:
“Una convinzione interna … che un giorno arriverà la pace per tutti e con tutti si intendono ebrei, musulmani e cristiani, perché credo che nessuno possa godere di questa pace da solo: mai!”.
Il patriarca ha infine parlato delle responsabilità della pace e di cosa si può e si deve fare per porre fine alle violenze:
“E’ vero che i due popoli sono colpevoli in prima linea – sia il popolo palestinese che quello israeliano – ma io do un po’ di colpa anche alla Comunità internazionale, che dovrebbe intervenire e fare qualcosa. Poi, se Israele vuole la pace, francamente, deve pagare il prezzo e, quindi, ritirarsi dai Territori occupati lasciando vivere i palestinesi, accettando la soluzione di due Stati, di cui tutti parlano. Ma pare che adesso Israele abbia più paura della pace che non della guerra. Perché pace significherebbe chiudere la questione di Gerusalemme, pace significherebbe risolvere la questione di tre milioni di rifugiati; pace significherebbe fissare delle frontiere per Israele. E Israele è l’unico Paese del mondo che attualmente non ha frontiere. Non sappiamo fin dove arriva, non lo sappiamo: possono entrare ed uscire con le jeep e con i militari dove vogliono. Gli ebrei hanno il diritto di ritornare in patria e tutti quanti sono i benvenuti, ma i palestinesi non hanno nessun diritto di ritornare. E poi, se ci fosse anche per i palestinesi il diritto di tornare, io credo che ritornerebbe il 5-10 per cento, al massimo. Io non credo che un palestinese che si sia ben sistemato in Canada lascerà tutto per ritornare: forse alcuni dei campi rifugiati torneranno. Per questo non dobbiamo aver paura se il diritto al ritorno fosse esteso anche ai palestinesi”.
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