lunedì, settembre 21, 2009

di Monica Cardarelli

Quasi ogni giorno assistiamo ad episodi di violenze fisiche, psicologiche e affettive perpetrate sul corpo e sul cuore dei bambini. Bambini venduti per il trapianto di organi; rapiti per mendicare per strada e praticare piccoli furti; figli sottratti ai propri genitori che vengono scaraventati improvvisamente dalla loro infanzia al mondo ‘dei grandi’. Purtroppo sembrano innumerevoli le situazioni di cui sono vittime i bambini e gli adolescenti. Istintivamente, sentiamo che tutto ciò è qualcosa di disumano. Perché ne siamo così colpiti? Forse perché ci sembra che ci si avventi sulle persone più deboli, fragili e indifese o perché tutto questo riduce la persona umana ad un oggetto da vendere o da utilizzare?
I bambini hanno uno sguardo diverso. Uno sguardo sul mondo e su se stessi che è puro, ingenuo e pulito. Rappresentano quell’angolo di intimità che custodisce la nostra infanzia, la purezza che si è persa nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, in cui quasi tutti ormai ci troviamo a dover combattere perché, giustifichiamo a noi stessi, la vita è questa. E noi, i grandi, stiamo con i piedi per terra, per non farceli mettere sulla testa dagli altri.
La violenza sui bambini ci colpisce non solo per la crudeltà ma perchè va a toccare l’innocenza, l’ingenuità, la bontà di ogni essere umano. Quando i bambini sono oggetto di violenza o di privazione ci sentiamo colpiti noi stessi in profondità, in quella parte di anima che ancora pulsa.
Sentiamo che viene colpita la vita nel suo momento più intenso, di crescita, di sviluppo, di cambiamento, di miglioramento e di apertura al bello e al buono: all’eternità.
“Non sono buona, sono giusta. Non mi piacciono i preti, non mi piacciono gli ebrei, non mi piacciono i tedeschi, ma non tollero chi se la prende con i bambini.” Afferma con piglio la signorina Marcelle, la farmacista di Chemlay, un piccolo paese vicino Bruxelles in cui si svolge “Il bambino di Noé” di Eric-Emmanuel Schmitt. È un breve racconto dal tono fiabesco e leggero. La storia di Joseph, un bambino ebreo di 10 anni affidato dai genitori alle cure di un Padre Pons, il parroco di Chemlay, che salverà le vite di numerosi bambini affidati al suo orfanotrofio. Il dramma familiare e di un popolo raccontato da un bambino, vissuto con ingenuità e al tempo stesso affrontato con realismo.
Lo stesso realismo e la nostalgia dell’essere bambini che ritroviamo in queste parole: “Come siamo tristi in quei giorni senza più nome, né viso, né tessera. Era meglio quando ci mandavano in un’altra stanza e non ascoltavamo niente. Ora sappiamo che la mamma andrà a vendere l’anello della zia. Basta, ora non c’è più.” E’ il racconto della bambina ebrea protagonista del libro “Una bambina e basta” di Lia Levi. Anche lei viene nascosta dalla mamma, con la sorella, in un convento cattolico alle porte di Roma per sfuggire alla deportazione.
Bambini catapultati improvvisamente dalla loro infanzia, alla durezza del mondo. Ma in quella durezza e crudeltà i due piccoli protagonisti riescono a trovare un appoggio in alcune persone che vanno oltre al colore della pelle, alla razza o alla religione, e che proprio per questo rispettano l’essere umano in ogni sua forma.
“Cosa c’è sotto una chiesa, Joseph?” – “La cantina?” – “No, la cripta.” Arrivammo al livello più basso. Dalle profondità soffiava un fresco odore di funghi. L’alito della terra? “E che c’è nella mia cripta?” – “Non lo so.” “Una sinagoga.” Accese qualche candela e vidi la sinagoga segreta che il Padre aveva messo su. Sotto un manto di ricche stoffe ricamate era conservato un rotolo della Torah, una lunga pergamena ricoperta di scrittura sacra. Una fotografia di Gerusalemme portava l’indicazione di dove girarsi per pregare, perché è passando da quella città che le preghiere risalgono fino a Dio. Dietro di noi, una quantità di oggetti era ammonticchiata su alcune mensole. “Cos’è?” – “La mia collezione. (…) Ogni sera mi ritiro qui per meditare sui testi ebraici. E durante il giorno, nel mio ufficio, imparo l’ebraico. Non si sa mai…” – “Cosa non si sa mai?” – “Se il diluvio continua, se nell’universo non resta più un solo ebreo che parli l’ebraico, io te lo potrò insegnare. E tu lo potrai trasmettere.” (Il bambino di Noé, Eric-Emmanuel Schmitt)
Fortunatamente, ci sono e sempre ci saranno persone così, ma è innegabile ed evidente quanto un bambino possa soffrire nel momento stesso in cui gli viene inflitta la sofferenza, di qualunque genere essa sia, e soprattutto quanto tutto questo lasci segni indelebili per tutta la vita.
“Ho visto mia madre smorta come un pupazzo di cenci e certe notti non riesco a prendere sonno: ora la paura non è più quel nemico irruento che mi aveva afferrato alla gola, è una nebbiolina sottile che s’infila veloce e insidiosa in tutti gli spazi della giornata lasciati vuoti da gesti e pensieri.” (Una bambina e basta, Lia Levi)
“Un trattore scendeva lungo la strada. Tra poco ci sarebbe passato vicino. Lo guidava un uomo. Sebbene senza barba e vestito da contadino, somigliava abbastanza a mio padre perché lo riconoscessi. Infatti lo riconobbi. Rimasi paralizzato. Non mi andava per niente di incontrarlo. “Purché non mi veda!” Trattenni il fiato. Il trattore passò sferragliando sotto il nostro albero e proseguì il suo cammino verso la valle. “Meno male, non mi ha visto!” eppure non era che dieci metri più in là, potevo ancora chiamarlo, riacchiapparlo. Con la bocca secca, evitando di respirare, aspettai che la distanza rendesse il veicolo minuscolo, impercettibile. (…)
Parecchi anni dopo, scoprii che era davvero mio padre l’uomo che mi aveva sfiorato quel giorno. Un padre che rifiutavo, un padre che speravo lontano, assente o morto…Quel disprezzo volontario, quella reazione mostruosa che ho invano cercato di giustificare con il panico e la mia fragilità dell’epoca, rimane l’atto di cui conserverò la vergogna – intatta, calda, bruciante – fino all’ultimo mio respiro.” (Il bambino di Noé, Eric-Emmanuel Schmitt)
Resta solo da augurarsi che si comprenda l’importanza che la nostra società deve dare ai bambini, al rispetto e all’attenzione in quanto persone ma anche alla loro formazione umana, oltre che culturale. Un’educazione al mondo, alla vita. Capire l’importanza di mantenere e coltivare quella curiosità di sbirciare sul mondo, la purezza dello sguardo dei bambini per poter poi diventare gli uomini e le donne di domani, consapevoli del proprio posto nella vita sì ma avendo vissuto appieno la propria infanzia così da poterla custodire gelosamente in quell’angolo d’intimità.


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