mercoledì, luglio 08, 2009
Dietro la rivoluzione di Twitter c’è il copione dell’antica faida tra Khamenei e Rafsanjani. Che ora potrebbe far implodere l’Iran

Tempi - Per qualcuno è la rivolta di twitter. Per qualcun altro la grande Onda Verde. Per tanti iraniani è la guerra dei trent’anni. Per capirlo basta riavvolgere il film della rivoluzione islamica, controllarne titoli di testa e di coda. In quei titoli è scritta tutta la storia della lotta di potere che divide Teheran e minaccia di far saltare le fondamenta della repubblica islamica. Il primo nome è quello di Alì Khamenei. Nel 1982 è già presidente, nel 1989 è l’erede designato dell’imam Khomeini, la suprema guida, la principale autorità politico-religiosa ancora oggi alla testa del paese. Sulla poltrona di primo ministro siede, dal 1981 al 1989, Mir Hussein Moussavi, un premier a cui spetta la responsabilità di far girare l’economia garantendo il pane alle città e le armi ai soldati impegnati nella guerra a Saddam Hussein. A decidere le strategie dei Guardiani della rivoluzione, punta di lancia dello schieramento militare, c’è un generale chiamato Mohsen Rezai. A far girare il Parlamento e a tener insieme i gangli del potere ci pensa l’ayatollah Alì Akbar Hashemi Rafsanjani, un uomo di fiducia dell’imam Khomeini, il più abile nel controllare intrighi di potere, gestire complessi interessi economici e non facili relazioni internazionali.
Inserite quei quattro nomi nella macchina del tempo, premete la date 2009 e l’attualità ve li restituirà protagonisti. Alì Khamenei è sempre lì alla testa del paese. Il vecchio primo ministro è diventato il capo dell’Onda verde, lo sfidante defraudato alle presidenziali, il simbolo della rivolta contro la truffa elettorale. Accanto a lui nella platea degli umiliati siede ancora il generale Rezai e sopra tutti si agita invisibile Alì Akhbar Hashemi Rafsanjani, l’eminenza grigia, lo squalo, il grande mestator di trame considerato da sempre il secondo uomo più potente dell’Iran. Ma ad Alì Akbar Rafsanjani il ruolo di eterno secondo va stretto. A gestire la grande macchina del tempo, l’eterno susseguirsi di protagonisti e comparse c’è sempre e solo lui. Incomincia tutto nel 1989 quando attorno al letto di morte di Khomeini si disegnano i futuri scenari del paese. Il grande ayatollah Montazeri, l’unico in grado per fama e dignità religiosa di succedere al padre della rivoluzione è da anni in rotta di collisione con Khomeini e dunque fuori gioco. In alternativa qualcuno propone un consiglio formato da tre personalità. Rafsanjani invece propone Khamenei e basta. In quei giorni gli ayatollah di Qom lo ascoltano sconcertati, Khamenei non ha mai raggiunto il grado di ayatollah, non ha il pedigree da Supremo Leader. Ma a Rafsanjani quel semplice e grigio esecutore sembra il paravento perfetto per gestire il potere nell’ombra. Una modifica costituzionale e l’immediata promozione ad ayatollah di Khamenei risolvono il problema della successione e aprono la strada a due successive presidenze di Rafsanjani. In quegli anni lo squalo è il vero signore della Repubblica Islamica, il presidente desideroso di chiudere lo scontro frontale con l’America per metter fine all’isolamento e rilanciare l’economia. Rafsanjani è anche un ayatollah imprenditore capace di gestire attraverso fratelli, figli e cognati il controllo degli stabilimenti automobilistici più importanti del paese, una linea area privata , la più grande miniera di rame dell’Iran, i proventi pari a 300 milioni di euro annui garantiti dalle esportazioni di pistacchio e il progetto da 500 milioni di euro per la costruzione della metropolitana di Teheran. Non a caso nel 1991, eletto presidente, tenta la carta della privatizzazione e della liberalizzazione economica. In quelle due parole è nascosta la formula per strappare a Khamenei il controllo delle “bonjad”, le fondazioni di Stato casseforti di tutte le ricchezze nazionali affidate all’esclusivo controllo della suprema guida. Ma due mandati da presidente non bastano.

La carta del riformismo
Khamenei è sempre lì consapevole delle manovre dell’ex amico e della necessità, per difendersi, di riunire attorno a sé i pasdaran e i gruppi più conservatori del paese. Se Rafsanjani è pronto a riaprire a Washington, lui, sopravvissuto ai torturatori dello Scià, addestrati da Cia e Mossad, non tollera trattative coi vecchi nemici. Per continuare a far politica Rafsanjani nel 1987 s’inventa la carta del riformismo. È lui a lanciare la figura di Mohammad Khatami, il presidente riformatore fatto rieleggere per due mandati. Khamenei gli risponde rafforzando le forze conservatrici, affidando al potere giudiziario la chiusura dei giornali riformisti, mandando le milizie basiji a disperdere le proteste degli studenti, affidando ai pasdaran lo sviluppo dei progetti nucleari. Nel 2005, quando Rafsanjani torna ad agire in prima persona ricandidandosi alle presidenziali, Khamenei lo umilia mobilitando guardiani della rivoluzione, milizie basiji e servizi segreti per costruire dal nulla la vittoria dello sconosciuto Mahmoud Ahmadinejad. Quattro anni dopo Rafsanjani gli risponde risvegliando dall’ibernazione politica Mir Hussein Moussavi, mettendo a disposizione dell’Onda Verde risorse e capitali. Khamenei risponde con la brutalità del potere, ma nel grande gioco dei doppi la lotta è ora molto più sofisticata.
Moussavi e i suoi luogotenenti, in gran parte già arrestati, non devono vincere, devono solo resistere. La vera lotta si gioca altrove, si combatte all’interno di quell’Assemblea degli esperti a cui spetta la nomina della suprema guida e – dicono gli interpreti della Costituzione – anche la sua eventuale rimozione. Da 2007 il presidente di quell’assemblea forte della maggioranza degli 86 ayatollah che la compongono è Alì Akbar Rafsanjani. Ma ora egli deve convincere gli ayatollah a riesaminare l’idea circolata intorno al letto di morte di Khomeini che ipotizzava di affidare il paese ad un Consiglio di tre supremi giureconsulti. L’Assemblea degli esperti vista l’emergenza, viste le voci sulla degenerazione del cancro alla prostata di Khamenei e l’incertezza politica del paese potrebbe decidere di affiancargli altri due suoi pari. Sarebbe il colpo basso in grado di azzerare Khamenei e garantire la sopravvivenza di un regime affidato all’eminenza grigia Rafsanjani. Ma prima di uscire allo scoperto Rafsanjani deve contare i generali di Khamenei e i propri. Una lotta fratricida tra i pasdaran fedeli alla suprema guida e i generali delle Forze Armate da tempo in rotta di collisione con i Guardiani della Rivoluzione rischia di segnare la fine della rivoluzione islamica e seppellire le ambizioni dei due grandi duellanti.

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