giovedì, marzo 26, 2009
Eco51.it - Il peggiore disastro ambientale per fuoriuscita di idrocarburi nelle acque degli Stati Uniti avvenuto nella notte del 24 marzo 1989: per negligenza umana, la petroliera americana Exxon Valdez urtò un iceberg nello Stretto di Prince William versando 42 mila tonnellate di greggio nel golfo dell’Alaska, inquinando 1.900 chilometri di coste incontaminate, per lo più disabitate. Nonostante il massiccio sforzo di bonifica ambientale da 2 milioni di dollari e l’impegno di 11.000 persone per quattro anni, la catastrofe ecologica continua tuttora.

In seguito all’incidente, nelle acque nere morirono orribilmente invischiati e congelati, annegati, avvelenati dall’inalazione di fumi tossici o dall’ingerimento del petrolio - secondo stime di massima - 250mila uccelli marini, 2.800 lontre, 300 foche, 250 aquile di mare, 14 orche e miliardi di uova di pesce. Il disastro marino ridusse fortemente la disponibilità biologica della catena alimentare, delle risorse naturali di sussistenza (pesci e fauna selvatica) dei circa 2.200 nativi appartenenti a 15 comunità dei villaggi, limitando le zone di caccia e pesca e annientando l’economia turistica.

Il governo degli Stati Uniti decise di rivedere i requisiti di sicurezza delle petroliere - come la conversione del doppio scafo e la creazione di piani di fuoriuscita - e di assegnare i costi degli interventi di ripristino delle coste alle compagnie petrolifere.

La Exxon Corporation USA (ora ExxonMobil) fu inizialmente condannata a 5 miliardi “punitivi” e al risarcimento di 33 mila persone (pescatori e lavoratori marittimi) per 3,4 miliardi di dollari, ridotti nel 2008 dalla Corte Suprema e accettati per 383 milioni di dollari.

A dispetto delle iniziali ottimistiche previsioni di completo recupero della zona stimate per il 1999, l’impatto si è rivelato più a lungo termine del previsto e allo stato attuale delle cose, a ormai vent’anni dalla catastrofe, l’ecosistema della baia più spettacolare dell’Alaska evidenzia ancora un recupero incompleto. Essendo un “sistema chiuso”, dalle temperature fredde, ma al riparo da tempeste e mareggiate invernali, i microorganismi non hanno operato la biodegradazione del petrolio rimasto dalla fuoriuscita dalla Exxon Valdez. Questo spiegherebbe la notevole persistenza nell’ambiente di residui liquidi, filtrati e ristagnanti al di sotto di pochi centimetri della superficie di alcune zone fortemente colpite, a un livello di tossicità quasi identico a quello dell’esposizione iniziale, nonostante l’azione degli agenti atmosferici. La scoperta è stata resa pubblica, nel mese in corso, dal 20th Anniversary Report della Exxon Valdez Oil Spill Trustee Council, istituita per controllare l’uso dei 900 milioni di dollari raccolti dalla Exxon Corporation USA per il ripristino degli ecosistemi danneggiati.

I progressi significativi degli interventi a tutela degli habitat sono quindi soltanto apparenti: gli idrocarburi aromatici policiclici (IPA) sono tuttora intatti e potrebbero avere impedito la ripresa di alcune specie animali (aringhe, lontre, orche, piccoli invertebrati, cozze, vongole). Questi idrocarburi liposolubili in genere non sono metabolizzati, ma risultano dannosi per gli animali a causa del bioaccumulo della sostanza tossica non biodegradabile nei tessuti dell’organismo, fino al raggiungimento di concentrazioni esponenziali da biomagnificazione, provocando alterazioni ormonali, immunitarie, riproduttive e cancerogene.

Il ristabilimento della sana comunità biologica in seguito al ritorno di condizioni di “normalità” sembra quindi ancora lontano e destinato a tempi lunghi.


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