venerdì, novembre 30, 2007
Roma, Italia — Gli attivisti di Greenpeace sono entrati in scena a Bruxelles. Hanno eseguito una parodia di fronte alla sede della Commissione Europea: "travestiti" da lobbisti di aziende biotech chiedevano autorizzazioni per vendita e commercio di Ogm in Europa. Dietro la parodia c'è la forte e seria richiesta di maggiore trasparenza sulle "relazioni lavorative" tra lobby biotech e Commissione. (da GreenPeace)Nei prossimi giorni, i commissari europei voteranno una proposta del commissario all'Ambiente, Stravos Dimas, per negare l'autorizzazione di due mais Ogm, dannosi per l'ambiente. I due mais Ogm in questione sono prodotti da Syngenta e Pioneer/Dow, modificati per essere teoricamente resistenti ad alcuni parassiti.
Recenti studi dimostrano che piante transgeniche in grado di produrre tossine possono avere una serie di effetti non voluti e imprevisti: dall'avere effetti negativi su effetti benefici al contaminare la vita acquatica.
Gli attuali regolamenti Ue richiedono alla Commissione Europea - nel momento in cui si trova a decidere per l'autorizzazione di nuovi Ogm - l'applicazione del principio di precauzione, considerando gli effetti rilevanti legati agli Ogm, come nuove evidenze scientifiche o fattori di rilevanza sociale.
I sondaggi continuano a mostrare che gran parte degli europei è contraria all'utilizzo di Ogm, sia per uso alimentare che per il rilascio in ambiente. Inoltre una maggioranza di stati europei si è ripetutamente espressa contro gli Ogm. Nonostante ciò, la Commissione Europea li continua ad autorizzare. Con il forte supporto del governo statunitense.
Greenpeace denuncia la sproporzionata influenza dell'industria Ogm in alcuni uffici della Commissione. I gruppi di lobby come la European Federation of Biotechnology (EFB) ed EuropaBio - che rappresentano gli interessi della aziende agrochimiche - hanno eccellenti relazioni lavorative con la Commissione.
venerdì, novembre 30, 2007
La sezione del sito dei PapaBoys di barzellette e vignette
dal sito dei PapaBoysROMA - Ridere fa bene, non solamente al cuore, ma anche allo spirito! Ed a chi vuol far passare i Papaboys come ragazzi che pregano e basta, innamorati di Gesù ed al servizio del Papa, ma senza un po' di serenità nella vita, diciamo che si sbaglia di grosso! Siamo ragazzi del mondo, anche se non siamo di proprietà di questo mondo, e quindi ci piace davvero sorridere della vita, e di tutto ciò che la vita offre come spunto per poterlo fare (clicca quì).
Non abbiamo scelto trivialità e volgarità per sorridere, perchè sono elementi che non fanno parte del nostro stile di vita. Nella nostra giornata media invece, non manca la gioia e la serenità: i ragazzi cattolici del Terzo Millennio, innamorati di Gesù, sono felici e sono abituati a ridere, e di gusto! Ed allora, cari fratellini e sorelline dell'Associazione, e lettori tutti ecco a Voi una sezione tutta da ridere con vignette e barzellette. Anche sui preti, si si! Le barzellette sui preti non fanno mai male e la cosa piu' bella di tutte è che le BARZELLETTE SUI PRETI LA MAGGIOR PARTE DELLE VOLTE SONO VERE!
Ecco per voi, una serie di freddure, barzellette e battute per staccare dallo stress quotidiano, evitando di prendersi troppo sul serio, e cercando di sdrammattizzare il più possibile. Sul portale dei Papaboys una sezionde dedicata alla chiesa... e quale sarebbe la novità? direte voi, la novità è: Ridiamoci sopra, uno spazio creato per ridere anche di noi stessi e rallegrarci un po'.
Cliccare su: http://www.papaboys.it/ridiamoci/index.asp
venerdì, novembre 30, 2007
papaboys.itCITTA’ DEL VATICANO - Nell'attuale anno scolastico 2007-2008, il 91,2 per cento degli studenti italiani ha scelto di seguire, nelle scuole statali, l'ora di insegnamento della religione cattolica. Lo rende noto un comunicato della Conferenza episcopale italiana. La percentuale ha subìto una leggera flessione rispetto allo scorso anno (era del 91, 8 per cento), ma si tratta comunque di un risultato - affermano i vescovi italiani - che ''riempie di gioia''. Alla scuola - spiega la Cei - ''e' chiesto di mettere in discussione stili di vita inconsistenti, purtroppo oggi diffusi e propagandati con leggerezza, per far riemergere i valori che contano''.
''Siamo certi che l'insegnamento della religione cattolica - si legge nella nota - non verra' meno al proprio compito di offrire uno specifico contributo''. Al 91,2 per cento di ragazzi a famiglie che hanno scelto, nelle statali, l'ora di religione,vanno sommati - spiega ancora l'episcopato italiano - ''quanti si avvalgono di tale insegnamento nella scuola cattolica, per un totale del 91,9 per cento dell'intera popolazione scolastica''. ''Il favore di cui gode in Italia l'insegnamento della religione cattolica ci riempie di gioia: esso costituisce - afferma il messaggio dei vescovi - un seme fecondo, destinato a portare frutto non solo nella comunita' ecclesiale, ma per il bene dell'intera societa' italiana''.
Ecco il Messaggio inviato dalla Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana
Il nuovo anno scolastico si caratterizza per taluni cambiamenti, che pur non intervenendo in maniera diretta sull’insegnamento della religione cattolica, ne confermano la dignità di disciplina autonoma, intorno alla quale promuovere una proposta didattica ed educativa in grado di aiutare gli alunni a comprendere meglio la storia culturale del nostro Paese, nonché il rilievo che in esso ha avuto e ha tuttora il cattolicesimo. Esso costituisce altresì per gli studenti una preziosa occasione per riflettere sulla “dimensione religiosa dell’uomo”, una risorsa indispensabile per decifrare le attese e i desideri presenti in ciascuno, a cui le religioni intendono dare una risposta alta, non illusoria e coraggiosa. In particolare il cristianesimo, religione del Figlio di Dio che si è fatto uomo venendo “ad abitare in mezzo a noi”, si propone come via ragionevole, capace di dare significato alle scelte e al futuro dei singoli e dell’intera umanità.
Questa prospettiva è esemplarmente risuonata nell’insegnamento che il Santo Padre Benedetto XVI ha indirizzato il 2 settembre scorso a Loreto a centinaia di migliaia di giovani là convenuti per la loro “Agorà”: “Ancora oggi Dio cerca cuori giovani, cerca giovani dal cuore grande, capaci di dare spazio a Lui nella loro vita (…). Gesù ha una predilezione per i giovani, come mette ben in evidenza il dialogo con il giovane ricco; ne rispetta la libertà ma non si stanca mai di proporre loro mete più alte per la vita: la novità del Vangelo e la bellezza di una condotta santa”.
La scuola è un’occasione unica e un tempo quanto mai opportuno per riflettere e trovare la strada che conduce a una felice realizzazione di sé. Non può certo farlo da sola, perché ha bisogno della collaborazione della famiglia e della società, di cui la comunità cristiana è parte. Non si può tuttavia prescindere da essa: qui si impara a essere vigilanti, critici, propositivi, costruttori di un futuro aperto all’accoglienza e alla condivisione, modellando uno stile di vita che non cede all’egoismo e alla prepotenza e si caratterizza per l’amore e la responsabilità. Anche su questo punto facciamo nostre le parole che il Papa ha rivolto ai giovani a Loreto: “Siate vigilanti! Siate critici! Non abbiate paura, cari amici, di preferire le vie ‘alternative’ indicate dall’amore vero: uno stile di vita sobrio e solidale, relazioni affettive sincere e pure, un impegno onesto nello studio e nel lavoro, l’interesse profondo per il bene comune”.
Secondo questa linea, alla scuola è chiesto di mettere in discussione stili di vita inconsistenti, purtroppo oggi diffusi e propagandati con leggerezza, per far riemergere i valori che contano. Sono le famiglie stesse ad avvertire il bisogno di essere sostenute e accompagnate nel difficile compito dell’educazione, e per questo ripongono nella scuola, autentica “comunità educante”, una grande fiducia, che si fa quasi invocazione d’aiuto.
Siamo certi che l’insegnamento della religione cattolica non verrà meno al proprio compito di offrire uno specifico contributo non solo grazie ai contenuti della disciplina stessa, ma anche per la professionalità dei docenti, da alcuni anni inseriti nella scuola con un ruolo maggiormente riconosciuto.
Quest’anno ben il 91,2% degli studenti e delle loro famiglie ha scelto, nella scuola statale, di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. A loro vanno sommati quanti si avvalgono di tale insegnamento nella scuola cattolica, per un totale del 91,9% dell’intera popolazione scolastica.
Il favore di cui gode in Italia l’insegnamento della religione cattolica ci riempie di gioia: esso costituisce un seme fecondo, destinato a portare frutto non solo nella comunità ecclesiale, ma per il bene dell’intera società italiana. Di questa scelta costante siamo riconoscenti agli studenti stessi, alle loro famiglie e ai docenti di religione. Convinti del contributo che tale insegnamento offre alla maturazione umana e professionale delle nuove generazioni, esortiamo gli studenti, con le loro famiglie, a comprenderne l’importanza e a valorizzarlo pienamente, e formuliamo l’auspicio che nessun alunno, anche se proveniente da Paesi stranieri o appartenente ad altra religione, trascuri o sottovaluti tale importante opportunità formativa.
Roma, 25 novembre 2007
LA PRESIDENZA DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
giovedì, novembre 29, 2007
Presentato l'Humanitarian Response Index: svettano i paesi del nord, ultimi quelli mediterranei
di Fabio Vitucci
Presentato a Londra, dall'ex Segretario generale dell'Onu Kofi Annan, l'Humanitarian Response Index, un'indagine sugli aiuti umanitari da parte delle nazioni sviluppate. Svezia, Norvegia e Danimarca si piazzano in testa alla classifica, mentre Portogallo, Italia e Grecia sono agli ultimi tre posti. L'indice è stato redatto dalla «Development Assistance Research Associates» con base a Madrid, allo scopo di migliorare la trasparenza nell'attività dei donatori. L'indice prende in esame i 23 Paesi sviluppati che nel 2003 hanno sottoscritto un trattato sulle pratiche dell'assistenza umanitaria ed è stato redatto attraverso questionari e ricerche condotti in Paesi colpiti da disastri.
L'organizzazione ha indicato nella Svezia un modello perché è il Paese in testa in più categorie: ad esempio è quello che ha offerto aiuto nelle crisi meno coperte dai mezzi di informazione (come quelle nella Repubblica democratica del Congo e ad Haiti). Male l'Italia, invece: il nostro Paese è al 22° posto, a causa dei punteggi bassi ottenuti in tutti gli indicatori utilizzati per stilare la classifica.
Questa la graduatoria completa: Svezia, Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Commissione Europea, Irlanda, Nuova Zelanda, Canada, Regno Unito, Svizzera, Finlandia, Lussemburgo, Germania, Australia, Belgio, Stati Uniti, Spagna, Giappone, Francia, Austria, Portogallo, Italia e Grecia.
giovedì, novembre 29, 2007
Altissima tensione nella capitale delle filippine. I soldati chiedevano le dimissioni della Arroyo. La presidente: «Le forze armate mi sono fedeli»
dal Corriere della SeraMANILA - Dopo l'irruzione, la resa. I militari ribelli che avevano occupato un lussuoso albergo di Manila, chiedendo le dimissioni della presidente Gloria Macapagal Arroyo si sono arresi alle truppe del governo filippino che avevano fatto irruzione nell'hotel di Makati, il cuore finanziario di Manila, nel quale erano asserragliati. I leader della rivolta - il generale Danilo Lin e l'ufficiale dell'esercito e senatore Antonio Trillanes- hanno spiegato di aver capitolato per evitare la perdita di vite umane. Qualche minuto prima un intenso crepitio di colpi d'arma da fuoco aveva accompagnato l'irruzione delle forze speciali filippine.
IMPOSTO IL COPRIFUOCO - Il governo filippino ha imposto il coprifuoco nella capitale Manila: durerá dalla mezzanotte alle 5 del mattino. La decisione è stata presa dopo la conclusione del braccio di ferro tra forze dell'ordine e militari ribelli asserragliati per sette ore in un hotel a cinque stelle della capitale. I militari ribelli sono stati arrestati.
GIORNALISTI IN MANETTE - E in manette sono finite anche una quarantina, tra giornalisti e operatori dell'informazione. Provvedimenti che sollevano nuovi dubbi sulla libertà di stampa in una delle nazioni asiatiche solitamente più ben disposte verso i reporte. Il governo ha detto di volersi accertare che i soldati ribelli, che sono scappati dall’udienza del tribunale nel processo che li vede imputati per il fallito colpo di stato del 2003, non fuggissero confondendosi tra i cronisti.
IL BLITZ - All'interno del lussuoso albergo, erano entrati, armati fino ai denti, un centinaio di membri delle forze speciali, schierati dalle autorità per mettere fine alla rivolta. I soldati avevano abbattuto la vetrata d'ingresso dell'hotel con un blindato. I gas lacrimogeni lanciati nella hall avevano creato il caos anche tra i giornalisti che, sfidando l'ordine di allontanarsi, avevano scelto di rimanere lì per documentare gli eventi.
LA PROTESTA - La protesta è durata diverse ore. I militari ribelli, sotto processo per un fallito ammutinamento nel 2003, avevano abbandonato l'aula del tribunale dove erano sotto processo e si erano asserragliati nell'albergo. Un testimone aveva detto alla Reuters che circa 200 persone, in maggioranza giornalisti ma anche ospiti con bagagli attendono nella hall di poter uscire dall'albergo. La polizia, che ha circondato l'albergo, ha già cominciato a sparare.
VESCOVI CON I RIBELLI - I leader della protesta, il generale Danilo Lim e l'ufficiale dell'esercito e senatore Antonio Trillanes, si erano riuniti in una sala al secondo piano dell'hotel insieme ad alcuni politici e ad almeno due vescovi della Chiesa cattolica (Antonio Tobias e Julio Labayen, uno solo secondo la Reuters) per decidere le azioni per destituire la Arroyo.«Noi chiediamo all’esercito di non sostenere più la Arroyo per mettere fine alla sua occupazione della presidenza contraria alla Costituzione e illegale» ha dichiarato il generale di brigata Danilo Lim. «Ci uniamo al popolo per chiedere un cambio di presidente» ha spiegato il generale.
«LE FORZE ARMATE MI RESTERANNO FEDELI» - La presidente Arroyo, che è rientrata d'urgenza da una visita in provincia, ha convocato una riunione di crisi e ha detto di essere certa che le forze armate le resteranno fedeli, secondo quanto ha detto il suo portavoce Ignacio Bunye. Il ministro della Giustizia Paul Gonzales ha detto che non c'è bisogno di decretare lo stato di emergenza, come invece era stato fatto l'anno scorso per un fallito golpe.
giovedì, novembre 29, 2007
di Carlo Ungarelli
Il 29 Novembre 1977 moriva, dopo 13 giorni di agonia, Carlo Casalegno. Giornalista, vicedirettore de La Stampa, era stato gravemente ferito con quattro colpi di pistola in seguito ad un attentato delle Brigate Rosse. Era il primo giornalista assassinato da un commando terrorista (tre anni dopo una simile sorte tocchera` a Walter Tobagi del Corriere della Sera) ed un altro nome da aggiungere allo stillicidio di vittime della violenza che caratterizzò quell’anno. Sulle prime si pensava ad un nuovo Sessantotto. Il 1 febbraio l’Università di Roma veniva occupata dagli studenti che protestavano contro la riforma dell’allora Ministro della ‘pubblica istruzione’ Malfatti che aboliva la liberalizzazione dei piani di studio. Ma il clima rispetto a nove anni prima è cambiato, è più cupo: lo scontro ideologico si è radicalizzato, la tensione sociale (causata anche da una perdurante regressione economica) è altissima....
Lo stillicidio inizia il 1 febbraio: una banda di picchiatori di estrema destra entra nella città universitaria al grido di “morte ai rossi”. Ci sono pestaggi e scontri. E arriva la prima vittima: uno sparo nella baraonda ed un colpo raggiunge alla nuca Guido Bellachioma, uno studente di 22 anni, che lotterà contro la morte per giorni. Il giorno dopo, durante una manifestazione di risposta, in seguito agli scontri tra le Forze dell’Ordine e i manifestanti muore Domenico Arboletti, un’agente di 24 anni e due manifestanti - Leonardo Fortuna e Paolo Tomassini - vengono gravemente feriti. Inizia così il 1977, un anno costellato da un’inaudita violenza, con le drammatiche e tragiche morti di militanti ed attivisti (Francesco Lorusso, Giorgiana Masi, Walter Rossi, Benedetto Petrone, Angelo Pistolesi), membri delle Forze dell’Ordine (oltre a Domenico Arboletti: Lino Ghedini, Settimio Passamonti, Antonio Custra) e semplici “civili” (come Roberto Crescenzio, vittima di un rogo scoppiato in un bar di Torino a causa di una molotov lanciata da un militante di Lotta Continua). Ma il 1977 è anche l’anno dell’ascesa – a suon di ferimenti ed omicidi – delle Brigate Rosse che a Torino, storica città operaia, uccidono il Presidente dell’Ordine degli Avvocati Fulvio Croce ed appunto Carlo Casalegno.
La storia di Carlo Casalegno è esemplare. Giovanissimo, partecipa alla lotta partigiana militando nelle formazioni “Giustizia e Liberta” appartenenti nel Partito d’Azione, dove collabora al giornale clandestino “Italia Libera”. Dopo la guerra, svolge intensa attività giornalistica: entra nel 1947 nel quotidiano “La Stampa” e ne diventa vicedirettore nel 1968. A partire dalla fine degli anni sessanta, gli articoli di Casalegno si concentrano su temi d’impegno politico. Nella sua rubrica settimanale dal titolo “Il Nostro Stato” emerge chiara e inequivocabile la sua posizione: sostegno alla legalità, ai diritti dei cittadini, all’ordinamento dello Stato e soprattutto aperta condanna della violenza e del terrorismo. Ma non è solo questo che cattura un lettore quando si trova davanti agli scritti di Casalegno. Si trovano i tratti caratteristici di uno strenuo avversario di qualunque estremismo e fanatismo ideologici e di un sincero difensore di un sano spirito democratico. Nell’agosto del 1977, a proposito della strategia della tensione e del terrorismo, Casalegno ad esempio scrive: “Strage di Milano, eccidio dell’Italicus, omicidio di Calabresi e di Occorsio, morte di Feltrinelli, fuga di Dalle Chiaie e di Giannettini; sono torbidi misteri, ma soprattutto punte di un iceberg di violenza, di inefficienza e di corruzione che da otto anni tormenta il Paese”. Carlo Casalegno è anche un giornalista di razza, pronto ad esporsi di persona per “avere le idee più chiare, per capire e per dialogare, o per scontrarsi”.
Nel settembre 1977 a Bologna (la città “rossa” per eccellenza, simbolo del PCI) si
celebra un convegno, organizzato da vari gruppi extra-parlamentari di sinistra, sulla repressione. Il clima è teso: circa due mesi prima il giornale “Lotta Continua” aveva pubblicato un appello firmato da vari intellettuali francesi ed italiani (tra cui Sartre, Focault, Barthes, Glucksmann e Guattari) in cui si sosteneva che il compromesso storico stava realizzando in Italia una specie di repressione di tipo sovietico, annichilando ogni forma di dissenso a sinistra del partito comunista: un tale documento non poteva che provocare un uragano negli ambienti politici di sinistra.
Nonostante non fosse il suo compito, Casalegno chiede ad Arrigo Levi (a quei tempi direttore del La Stampa) di poter seguire il congresso di Bologna. E` pericoloso per Casalegno andare a Bologna, visto che il giornalista è additato, sia dagli estremisti che da alcuni intellettuali (i sostenitori del suddetto manifesto), come “nemico del popolo”. Come ha scritto Arrigo Levi sulla Stampa in occasione del 25esimo anniversario dell’attentato a Casalegno (16 novembre 2002) “Carlo andò con tutta la sua autorevolezza …perche` voleva capire. Tutti allora volevamo allora capire i nostri figli, che avevamo educato nel culto dell’antifascismo e dell’amore per la democrazia e che inseguivano, per vie diverse, la loro ricerca della verità; col rischio di ripetere antichi errori”. I suoi resoconti sono lucidi ed imparziali. Gli intellettuali disinvolti che predicavano la rivolta e teorizzano una campagna contro una repressione di stampo “sovietico” sono “gli sconfitti del convegno…neppure la follia dei manifestanti ha preso sul serio la campagna contro la repressione in Italia. La libertà, assicurata al convegno dalle istituzioni ‘repressive’, e la civile accoglienza di Bologna hanno coperto di ridicolo l’ardore da martiri con cui erano scesi nella fossa dei leoni”. C’è poi una gioventù che si riconosce in “un movimento magmatico, diviso in tante correnti, privo di strutture organizzative e gerarchiche, carico di spinte irrazionali e violente, agitato da uno spontaneismo anarcoide e che alla fine non ha voluto lo scontro.” Infatti la manifestazione di chiusura del convegno, tenutasi domenica 25 settembre 1977, si svolge senza incidenti: “Così il pomeriggio di domenica Bologna ha potuto offrire un bellissimo esempio di convivenza democratica”.
Ma un giornalista serio ed imparziale che decide di scandagliare il confuso magma dell’estremismo delle formazioni eversive e del terrorismo diventa scomodo per chi vuole innalzare il livello dello scontro sociale. Giornalisti come Casalegno entrano nel mirino delle formazioni eversive ed estremistiche. Si passa dallo slogan degli autonomi “Giornalista, sbirro maledetto, te lo scriviamo noi l’articolo perfetto” al documento interno delle Brigate Rosse completato nel giugno del 1977 in cui c`è un capitolo dal titolo significativo: “Colpire la stampa di regime strumento della guerra psicologica”. Ed inizia l’offensiva contro la stampa: vengono feriti Vittorio Bruno, Indro Montanelli, Emilio Rossi, Antonio Garzotto, Leone Ferrero. Casalegno però non si ritira a vita privata, anzi. Il terrorismo, la minaccia eversiva diventano elementi sempre più importanti delle sue lucide riflessioni: è ormai più di un anno che scrive in maniera regolare sul pericolo del terrorismo. Il suo primo articolo, datato 15 aprile 1976 è lucidamente impietoso: “Le Br, minoranza ribelle e violenta collocata oltre la sinistra extraparlamentare, divisa fra la rivolta fine a sé stessa e le velleità rivoluzionarie, che unisce teppisti e fanatici e che persegue, attraverso il crimine, la politica del tanto peggio tanto meglio“. Quando a Torino il primo processo contro le Br viene sospeso, nel suo articolo del 4 maggio 1977 emerge ancora una volta la sua difesa coerente della legalità: “La legge e i principi stessi della convivenza civile hanno subito nella giornata di ieri un’altra sconfitta. Si infittiscono i segni di sgretolamento dello Stato. A Torino, il maggior processo indetto finora contro i brigatisti rossi è finito prima di cominciare; dopo la fuga in massa dei giurati, la Corte ha constatato l’impossibilità di costituire il collegio giudicante e rinviato il dibattito a nuovo ruolo..Miopi calcoli, negligenze, paura danno spazio crescente all’illegalià”. Ormai il vicedirettore del la Stampa è nel mirino delle Brigate Rosse, che stanno organizzando un attentato. Forse la goccia che fa traboccare il vaso è il suo ultimo articolo, uscito il 9 novembre dal titolo “Chiusura dei covi. Basta applicare la legge”. In quest’ultima testimonianza giornalistica, Casalegno afferma senza indugi che le norme in vigore – senza cioè l’introduzione di leggi speciali sulla sicurezza – “offrono tutti i mezzi per combattere l’eversione”, ovvero che la “chiusura dei covi non è liberticida”. Il resto, purtroppo è storia: l’attentato del 16 novembre e la lunga agonia all’ospedale delle Molinette che si conclude tragicamente il 29 novembre. Il tutto in un clima sempre più incandescente. Casalegno è tra la vita e la morte quando, il 19 novembre appare su “Lotta Continua” un intervista, curata da Gad Lerner e Andrea Marcenaro, ad Andrea Casalegno, figlio di Carlo. E` una testimonianza lucida, in cui si parla di “assoluta disumanizzazione” della lotta armata e dove emerge il dolore sincero di un figlio per le gravi condizioni in cui si trova il padre alla stessa stregua della difesa da parte di un figlio dell’indipendenza ed onestà del padre. L’intervista provoca una fiumana di lettere in cui emergono posizioni assai oltranziste. Ma anche altri organi di stampa sono al centro dell’attenzione: il direttore Arrigo Levi nei suoi editoriali fa emergere una “chiamata di correo” nei confronti dei fiancheggiatori dichiarati o “passivi” del terrorismo. Gianpaolo Pansa, inviato di Repubblica, registra una certa freddezza tra gli operai nel grado di solidarietà nei confronti di Casalegno.
La vicenda legata all’uccisione del giornalista ha poi un’epilogo giudiziario nel 1983, quando la corte di Assise di Torino emette la sua sentenza a carico della colonna torinese delle Brigate Rosse: fra i suoi delitti si cita appunto l’assassinio del vice-direttore de La Stampa.
La storia di Carlo Casalegno però non è solo una vicenda drammatica e piena di desolazione, ma è anche una storia in cui emerge una persona a tutto tondo, lucida, professionale e portatrice di valori fondamentali: sicuramente un esempio da seguire e da non dimenticare.
p.s. Questo articolo non e` frutto di ricordi personali : nel 1977 avevo solo 9 anni, e il mio primo vivido ricordo degli anni di piombo rimane il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Il materiale qui rielaborato e` frutto di varie letture. In particolare, ho usufruito dell’ottima ricostruzione di quello che accadde nel 1977 eseguita da Concetto Vecchio nel suo libro “Ali di piombo” (BUR, 2007) e di vario materiale reperito sulla rete (la scheda su Carlo Casalegno dell’associazione italiana vittime del terrorismo e gli articoli sul giornalista raccolti dal consiglio regionale della Lombardia dell’ordine dei giornalisti)
mercoledì, novembre 28, 2007
Spot nell'intervallo della partita: "Africani, la Svizzera è un inferno"da RepubblicaL'ammonizione, sotto forma di uno spot tv, s'è materializzata nelle case di molti paesi africani martedì 20 novembre durante l'intervallo della partita amichevole Svizzera-Nigeria. Un immigrato di colore telefona al padre da una cabina telefonica e gli racconta di com'è bella e civile la Confederazione elvetica: in realtà vive sulla strada, s'arrangia con l'elemosina, ed è perseguitato dalla polizia. Una campagna anti-stranieri, per scoraggiare l'arrivo di altri cittadini africani, con un messaggio che non potrebbe essere più esplicito: non venite da noi, non c'è lavoro per tutti, finireste nel girone degli ultimi.
GUARDA IL VIDEOA confezionare l'annuncio è stato il dipartimento dell'emigrazione, il cui responsabile, Eduard Gnesa, ha dichiarato al Sonntags Blick, il quotidiano popolare di Zurigo che ha svelato il caso: "Abbiamo la responsabilità di aprire gli occhi a queste persone affinché si rendano conto della vita che potrebbe attenderle".Il leader populista, e fresco trionfatore delle ultime elezioni politiche, il ministro della giustizia Christoph Blocher, ha benedetto l'iniziativa: "Dobbiamo dimostrare agli africani che non siamo un paradiso!". Gli svizzeri sembrano apprezzare. L'83 per cento dei lettori del Sonntags Blick si dice d'accordo con Blocher. Sui blog le voci critiche sono perlopiù isolate. "Dov'è finita la nostra identità? Se passeggio nella mia città, Biel, ho la sensazione di trovarmi in Africa. E' tempo di fermarli", scrive Bootvoll, la barca è colma, un nome che riecheggia il titolo del film del regista Markus Imhof sul mancato accoglimento di sei rifugiati politici nella neutrale Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale.
La disoccupazione è pressoché inesistente, ferma al 3,5 per cento, ma il governo motiva la sua campagna con le difficoltà a garantire agli immigrati di colore un regolare permesso di soggiorno, che viene concesso solo se si può vantare un impiego fisso. "La forza lavoro africana è ricercata poco o nulla" fanno notare dal dipartimento. "L'unica chance è quella di chiedere asilo, una trafila complicata e lunga, da cui intendiamo scoraggiarli. E poi il nostro è anche un modo per risparmiare sul budget previsto per i rifugiati".
"Migliaia di africani, in cerca di fortuna in Europa, annegano nel Mediterraneo" ammonisce Gnesa. "Anche da questi rischi intendiamo metterli in guardia". Lo spot sembra aver fatto scuola. Altri paesi europei intendono seguire l'esempio elvetico. Pare che l'Unione europea stia collaborando già con la Svizzera per mandarne in onda uno sulla tv pubblica del Camerun. Lo spot per il Congo invece è già quasi pronto.
mercoledì, novembre 28, 2007
«Solo un placebo, effetti collaterali inattesi». Nuova ricerca di Lancet. I farmacologi: «Basta aiuti».
ROMA — Efficace come un placebo. Finta medicina. O, se preferite, acqua fresca. Stangata di Lancet, la prestigiosa rivista di scienza, sull'omeopatia. Un articolo firmato sull'ultimo numero da Ben Goldacre, autore di un commento affilato anche sul quotidiano britannico Guardian, stronca la più gettonata delle terapie alternative citando cinque ampie revisioni degli studi condotti negli ultimi anni.
Tutti, sostiene, portano alla stessa conclusione: «Non sono stati evidenziati vantaggi significativi rispetto ai placebo». Non basta. Goldacre insiste nel colpire duramente denunciando gli «inattesi effetti collaterali» e la mancanza di informazione adeguata. Seguono, sempre su Lancet, due servizi sull'ondata antiomeopatica nel Regno Unito, dove il governo ha tagliato i fondi pubblici ad alcuni centri che prescrivono le cure dolci, e sul buon vento che soffia in India dove il mercato sta crescendo del 25% all'anno, sostenuto da 100 milioni di pazienti.
Alle insinuazioni replicano i Laboratoires Boiron, una delle maggiori aziende del settore, che cita i risultati di sperimentazioni condotte secondo le regole corrette dal punto di vista metodologico. Vengono rivendicati gli «effetti benefici degli interventi con omeopatia». «L'ennesimo attacco scientificamente ingiustificabile» è annoverato fra le attitudini sfavorevoli «al progresso nella conoscenza. L'omeopatia è una vera e propria chance per la medicina di domani — argomenta Boiron — ma non ce la fa da sola, ha bisogno di condividere il percorso con gli scienziati, mondo accademico e realtà ospedaliera».
Polemiche anche in Italia dopo la divulgazione del documento della società italiana di farmacologia, la Sif, nell'ultimo numero della Newsletter. Bocciate oltre all'omeopatia («la forza delle evidenze che scaturisce dagli studi pubblicati è bassa e vengono in genere riportati risultati negativi»), agopuntura («efficacia moderata come nel caso delle patologie infiammatorie croniche»), medicina tradizionale cinese («su di essa esistono limitatissime informazioni, carenza aggravata dalle difficoltà legate alla lingua») e fitoterapia. Meno duro il giudizio sulle erbe: «Da anni molti medici in Italia le usano e hanno maggiore familiarità. Le prove di efficacia però non sono sempre entusiasmanti e se prescritte con troppa disinvoltura possono portare qualche guaio». Achille Caputi, presidente della Sif, spiega le ragioni dei farmacologi: «Per il servizio sanitario è un momento di estreme difficoltà economiche e non vediamo perché bisognerebbe rimborsare cure che non funzionano, come vorrebbe la proposta di legge in discussione al Parlamento».
Sono circa 200 i centri ospedalieri e Asl che rimborsano le altre terapie (salvo versamento di ticket e prodotti a carico del paziente), grazie all'autonomia di spesa delle Regioni. La popolarità delle terapie alternative in Italia è per la prima volta in calo secondo l'ultima indagine Istat, 60 mila famiglie intervistate nel 2005. Gli italiani che almeno una volta hanno combattuto raffreddore, influenza e dolori intestinali o reumatici sono 7 milioni e 900 mila, un milione in meno rispetto al '99. Il motivo? Maggiore prudenza dopo gli articoli scientifici non rassicuranti.
mercoledì, novembre 28, 2007
di Naoki Tomasini
PeaceReporter
Israele-PalestinaDimitri Reider, giornalista israeliano, ci racconta da Tel Aviv il suo punto di vista sul vertice di Annapolis
Cosa ti aspetti dal meeting di Annapolis?
Penso che il vertice di Annapolis potrebbe diventare un disastro peggiore del summit di Camp David del 2000. Ci sono questioni negoziali che lo rendono difficile: lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno per i profughi e le colonie. Lo farà fallire la necessità di raggiungere un compromesso su tutti questi fronti. Il disastro si potrebbe profilare tra qualche mese, quando i palestinesi potrebbero trovarsi non più sotto occupazione, ma imprigionati, o indipendenti ma sotto il controllo della Giordania. A quel punto il risentimento della gente potrebbe avere diverse conseguenze: la ripresa della lotta armata da parte delle milizie in Cisgiordania, o il rovesciamento di Fatah, o la nascita di una terza forza, come i numerosi movimenti pan-islamici che stanno crescendo dalle parti di Nablus.
Intorno alle ipotesi su Annapolis preoccupa anche quella di uno scambio di cittadini, che si potrebbe tradurre in una specie di pulizia etnica dei residenti arabi in Israele. In molti pensano infatti che sia interesse di Israele liberarsi di quella parte di popolazione, che sta diventando sempre più politicizzata. Infine il summit sta palesemente ignorando la gravissima situazione di Gaza. Forse per la popolazione della Cisgiordania ci potranno essere dei piccoli cambiamenti, come la rimozione di qualche check point, ma per chi vive nella Striscia di Gaza le cose possono solo peggiorare. Non sono il solo a nutrire poche aspettative sul meeting, comunque, a Tel Aviv la gente non sembra affatto interessata e per le strade non se ne parla.
Hai detto “non più sotto occupazione, ma imprigionati”. L'ipotetico Stato Palestinese sarà una prigione chiusa dall'esterno come la Striscia di Gaza?
Non esattamente, probabilmente i palestinesi avranno una via d'uscita attraverso la Giordania (mentre il valico di Gaza verso l'Egitto è chiuso, ndr. ). Più in generale immagino un'entità politica legata alla sfera di influenza del regno giordano, il che è diverso da una reale indipendenza. In realtà anche il “non occupati” è discutibile se si pensa che durante la guerra civile dell'inizio estate si arrivò a un passo dall'occupazione giordana della Cisgiordania, col consenso di Israele.
Pensi che questo meeting restituirà sostegno popolare a Olmert o che il premier finirà vittima delle destre che si oppongono a ogni compromesso?
Penso che non hai colto il punto. Olmert è di destra, radicalmente. Il fatto che non lo rivendichi non lo pone tra le sinistre. In Israele c'è poca opposizione al vertice, quasi tutti si rendono conto che per evitare che quel che è successo a Gaza si ripeta anche nel resto della Palestina Israele deve lasciare la Cisgiordania. Liberarla alla svelta e farlo entro una cornice politica. In questo momento la destra ha ricevuto garanzie che i principali insediamenti in Cisgiordania non verranno evacuati e si discute, come ti dicevo, dell'ipotesi di espellere i cittadini arabi israeliani. É più di quanto ogni israeliano di destra potrebbe mai sognare. Tornando a Olmert, penso che presto perderà il potere. C'è una piccola possibilità che a sostituirlo sia Barak, che sta cercando di ripristinare la sua reputazione nell'elettorato, ma non sarà facile che riesca a farci dimenticare che la seconda intifada è scoppiata sotto il suo governo. Tzipi Livni invece sembra essere l'eterna numero due, un'opportunista cui mancano sia i principi che il senso dell'opportunità. Aveva tutte le possibiltà del mondo l'anno scorso, quando uscì il rapporto Winograd, per prendere il potere. Fu sul punto di dimettersi -cosa che avrebbe portato a elezioni che aveva buone possibilità di vincere- ma non ebbe il coraggio e tornò indietro. In ogni caso tutti e tre i candidati rappresentano lo stesso modo di pensare, quindi se anche Olmert perdesse il posto non sarebbe un grande cambiamento.
E Abu Mazen?
Secondo me il vertice farà perdere peso politico anche ad Abu Mazen. La domanda da porsi è: a favore di chi? L'ipotesi che possa essere sostituito da Marwan Barghouti sembra più una fantasia israeliana, quella di trovare un leader come Nelson Mandela per i palestinesi. Il tempo per la sua riemersione politica è passato da un pezzo, avrebbero dovuto liberarlo quando venne fuori il documento dei prigionieri, allora sì che sarebbe stato un vero cambiamento. Le chiacchiere su Barghouti dimostrano che il nostro governo è interessato solo al mantenimento dello status quo.
martedì, novembre 27, 2007
da Radio Vaticana
Oltre 8.800 tonnellate di cibo per i più poveri. È il risultato dell’undicesima Giornata della colletta alimentare che si è svolta sabato scorso in tutta Italia. L’iniziativa ha raccolto il 5 per cento di alimenti in più rispetto allo scorso anno. Linda Giannattasio ha chiesto a monsignor Mauro Inzoli, presidente della fondazione Banco alimentare Onlus, tra i promotori dell’iniziativa, di commentare gli ottimi risultati ottenuti. (ascolta)
martedì, novembre 27, 2007
La conferenza di Annapolis: intesa su un documento che fissa inizio e fine del negoziato. Abu Mazen: Gerusalemme est nostra capitale
dal Corriere della Sera
Alla fine l'intesa per partire è arrivata. A pochi minuti dall'inizio della conferenza di Annapolis israeliani e palestinesi hanno raggiunto l'accordo su un documento comune che delinea la cornice dei futuri negoziati per la pace in Medio Oriente. Le due parti hanno concordato di avviare «immediatamente» negoziati per arrivare a un accordo di pace «entro il 2008» ha annunciato il presidente George W. Bush dopo il colloquio con il premier israeliano Olmert e il leader dell’Anp Abu Mazen. Il primo incontro si terrà il 12 dicembre quando si riunirà per la prima volta la commissione congiunta israelo-palestinese. Nel quadro degli sforzi per raggiungere l'obiettivo di «due Stati sovrani che vivono in pace l'uno accanto all'altro» i due leader si incontreranno «su base bisettimanale per seguire lo sviluppo dei negoziati».
«OPPORTUNITA' STORICA» - Bush ha parlato di «opportunità storica» per la pace nel suo discorso di apertura della conferenza. «Il nostro scopo qui ad Annapolis non è concludere un accordo. È piuttosto lanciare i negoziati tra israeliani e palestinesi». Bush si è poi impegnato personalmente a sostenere gli sforzi per raggiungere un accordo di pace entro la fine della sua presidenza, nel gennaio del 2009.
Il presidente americano ha aggiunto che la sfida sarà difficile e che molto lavoro resta da fare, ma che «il momento è giusto» per tentare. Per diverse ragioni: perché «israeliani e palestinesi hanno leader determinati a raggiungere la pace», perché «è in corso una battaglia per il futuro del Medio Oriente» e anche perché «il mondo comprende l'importanza e l'urgenza di sostenere questi negoziati». Se la missione dovesse fallire, Bush ha prefigurato uno scenario apocalittico: per il Medio Oriente si aprirà «un futuro di violenza e di terrore senza fine» ha detto il presidente americano. Se i leader palestinesi non riusciranno ad attuare questa visione, una generazione di palestinesi finirà nelle mani degli estremisti». Per allentare la tensione, passo indispensabile per colloqui sereni, il presidente ha poi invitato i palestinesi a smantellare «le infrastrutture del terrore», chiedendo allo stesso tempo agli israeliani di «porre fine all'espansione degli insediamenti dei coloni» in Cisgiordania. «Oggi palestinesi e israeliani comprendono entrambi che aiutare l’altro a realizzare le sue aspirazioni è la chiave per realizzare la propria, e entrambi chiedono uno stato palestinese indipendente, democratico e praticabile» ha affermato Bush.
ABU MAZEN: «OCCASIONE IRRIPETIBILE» - Dopo Bush ha preso la parola il leader dell'Olp, Abu Mazen: «Il futuro Stato Palestinese dovrà avere Gerusalemme est come capitale» ha ribadito Mahmud Abbas. «Vorrei che ognuno mettesse la sua esperienza per superare le sfide sul cammino della pace. Vogliamo la pace, che è il bene per noi e per voi. Pace e libertà sono un diritto per noi e per voi, guardiamo insieme al futuro con fiducia e speranza in modo che questa terra così sofferta, in modo che la pace non sia così impossibile, se c'è speranza e desiderio noi raggiungeremo questo scopo. Non dobbiamo perdere questa occasione, potrebbe non ripresentarsi, più pensiamo al futuro dei nostri bambini».
OLMERT - Nel suo intervento il premier israeliano Olmert ha auspicato «negoziati continui, bilaterali e diretti in modo da completarli nel corso del 2008: dovranno affrontare tutti gli argomenti che finora abbiamo evitato». Poi ha assicurato che il suo popolo è «disposto a un compromesso doloroso per la pace», un lungo e complesso sentiero per il quale non c'è alternativa». Ai palestinesi: «Non abbiamo dimenticato le tragedie che avete passato, non siamo indifferenti alla vostra sofferenza». Ai paesi arabi presenti: «E' ora di porre fine al boicottaggio nei confronti di Israele».
INCONTRI PRE-VERTICE - La partenza del summit è stata preceduta da un colloquio trilaterale tra Bush, Olmert e Mahmud Abbas. Per il presidente americano è stato il secondo incontro con il presidente israeliano e il leader dell'Anp nel giro di 24 ore. Mercoledì Bush vedrà ancora i due leader mediorientali ma stavolta separatamente. Il prossimo colloquio mira a rilanciare subito il negoziato israelo-palestinese dopo le dichiarazioni ufficiali della conferenza odierna di Annapolis.
martedì, novembre 27, 2007
La denuncia: oppioidi, Italia ultima nell’Ue. Lo specialista: "non curare la sofferenza è come torturare".MILANO—«La tragica condizione in cui versa la terapia del dolore in Italia è paragonabile alla tortura per omissione». La denuncia è di Costantino Benedetti (nella foto), docente di Anestesiologia e terapia del dolore della Ohio State University di Columbus. «Cervello» italiano da oltre 30 anni negli Stati Uniti dove è stato allievo del «padre» della moderna terapia del dolore, Giovanni Bonica, altro italiano (la sua famiglia si trasferì da Filicudi negli States quando lui aveva 7 anni). Bonica è morto nel 1994.
Benedetti ha proseguito la sua opera, restando attento osservatore di quanto «non si faceva » in Italia. «Umberto Veronesi — dice —, da ministro, si è impegnato a rimuovere alcune importanti barriere che sembravano impedire ai medici di prescrivere con facilità gli oppioidi, i farmaci morfino-simili più efficaci per la terapia del dolore intenso. Sono ormai passati sette anni e l’Italia resta ultima in Europa nell’uso di questi farmaci». Pur essendo terza per la prevalenza del dolore cronico (26% su 75 milioni di europei) e prima per il dolore cronico severo (un italiano su 4). Si soffre senza le giuste cure? Lo dicono i dati più recenti (fonte: Centro studi Mundipharma): in Italia la spesa media pro-capite annua dei maggiori oppioidi utilizzati nella lotta alla sofferenza (morfina, ossicodone, tilidina, fentanil, idromorfone e buprenorfina) risulta pari a 0,52 euro, contro i 7,25 e i 7,14 di Germania e Danimarca.
Nel resto dei Paesi europei censiti, la spesa media si aggira attorno ai 3 euro e il nostro Paese risulta ben distaccato rispetto alle realtà immediatamente precedenti: Olanda 2,47 euro, Belgio 2,38 e Francia 2,36. Una recente analisi dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sottolinea come nel 2004 l’uso di morfina annuale pro capite in Italia era di 5,32 milligrammi, mentre in Austria era di 115,71. Ancora più allarmanti sono i numeri che snocciola Benedetti: «Nel 2005 in Italia si sono consumate 22 milioni di dosi di oppioidi. Insufficienti. Le linee-guida sulla terapia del dolore sostengono che un paziente con dolori continui ed intensi, come quelli da tumore, necessita di almeno una dose di oppioidi al giorno. Totale: 365 dosi per paziente all’anno».
Calcolatrice alla mano, 22milioni di dosi servono per controllare il dolore di 60 mila pazienti. Ma in Italia ogni anno muoiono di cancro oltre 150 mila malati. «E più del 70% di loro soffre dolori incoercibili », dice Benedetti. I conti non tornano. «Qualcuno non riceve morfina — risponde Benedetti —. E parliamo solo dei malati oncologici terminali». Insomma, circa 90 mila pazienti nel 2005 sarebbero morti senza un’adeguata cura anti-dolore. Benedetti scuote la testa: «I conti non tornano». Se poi al dolore oncologico si aggiunge quello cronico di qualsiasi intensità e natura, il numero dei sofferenti—dicono le statistiche — oscilla tra il 15 ed il 25% della popolazione. Secondo l’università dell’Ohio, il 10% della popolazione soffre di dolori cronici intensi.
Calcola Benedetti: «Circa sei milioni di italiani. Di conseguenza, in base al consumo di oppioidi nel 2005, si può affermare che ad ogni paziente italiano con dolori intollerabili è stata somministrata, in media, una dose di oppioide ogni tre mesi. Altro che giornaliera ». Tutto ciò è etico? «E’ etico omettere la corretta terapia? In tutte le nazioni civili neppure il peggiore dei criminali viene sottoposto alla tortura. E un dolore intollerabile causato da una malattia, e non trattato, equivale ad una tortura continua». Benedetti conclude citando Primo Levi: «Se sappiamo che il dolore e la sofferenza possono essere alleviati e noi non facciamo nulla, noi stessi siamo dei carnefici».
Note dolenti. Ma c’è n’è una anche positiva. Arriva da Pisa. Si tratta di un test del sangue che misura la soglia del dolore individuale e come ognuno risponde ai farmaci. L’hanno messo a punto Paolo Poli, direttore dell’unità di terapia del dolore, e Paolo Barale, genetista. «Semplice quanto efficace — spiega Poli —: un normale esame del sangue consente d’identificare la risposta genetica personalizzata alla terapia farmacologia. Un risultato che emerge dopo tre anni di studi e ricerche su 300 pazienti (40% oncologici, 60% non oncologici ed afflitti da patologie comuni come il mal di schiena, dolori artrosici). L’indagine riguarda in particolare l’impiego della morfina e permette di quantizzare la dose trasportata, tramite una proteina, al suo specifico recettore cellulare. Si può ottenere così la massima efficacia con il minimo di farmaco». La scoperta è pubblicata su Clinical Pharmacology and Therapeutics.
martedì, novembre 27, 2007
Gli islamici la difendono: «Una reazione esagerata»
dal Corriere della Sera
MILANO - Rischia quaranta frustate in pubblico l’insegnante britannica arrestata in Sudan per aver permesso ai suoi allievi di sei e sette anni di chiamare ’Maometto’ un orsacchiotto di pelouche. L’accusa è di vilipendio del profeta musulmano. Ma alcuni nomi importanti nel mondo islamico britannico, scrive il Mirror on line, si sono schierati dalla parte di Gillian Gibbons, 54 anni e due figli, criticando duramente l’arresto e definendolo un’esagerata e ridicola reazione. Lo scrittore e psichiatra Russel Razzaque sostiene che "tutto ciò va oltre ogni immaginazione".
Shahid Malik, primo politico musulmano ad avere assunto un incarico ministeriale nel governo britannico, afferma: «Sono disgustato. Si tratta di un terribile errore. Non credo ci fosse malizia» nel nome scelto dai ragazzini. Ma anche Robert Boulos, direttore di un liceo di Khartoum, si è indignato: «E’ stato un errore innocente. La signora Gibbons non avrebbe mai insultato l’Islam».
L’incidente è avvenuto in settembre. Gillian stava parlando ai suoi scolari di animali e piante, una classe mista di bambini cristiani e musulmani di 6 e 7 anni. Chiese a una bambina di portare in classe il suo orsacchiotto a cui i compagni avrebbe dato un nome. Attraverso una votazione fu scelto ’Maometto’ da 20 bambini su 23. Poi ogni bambino avrebbe portato a casa l’orsetto per un week end tenendo un diario su cosa avrebbe fatto con il nuovo compagno. Il titolo del diario era "Il mio nome è Maometto". Il quaderno è finito nelle mani di alcuni genitori, poco propensi all’utilizzo spensierato del nome del profeta, che hanno avvertito la polizia.
martedì, novembre 27, 2007
di Fabio Vitucci
Continua in Cina il totale spregio di ogni diritto umano e civile: il pastore tibetano Runngye Adak è stato condannato a otto anni di carcere per aver urlato ad una festa popolare nella provincia del Sichuan, Cina del Sud, "LUNGA VITA AL DALAI LAMA".
La sentenza, tenuta nascosta per alcuni giorni, alla fine è stata resa pubblica. Insieme all'uomo, padre di 11 figli, sono stati imprigionati tre suoi amici, che poche ore dopo l'arresto si erano permessi di protestare e di chiedere la liberazione: la corte li ha ritenuti colpevoli di avere attentato "alla sicurezza nazionale".
E tutto questo mentre in Italia l'arrivo del Dalai Lama sta passando sotto silenzio perchè il governo e le varie autorità non vogliono correre il rischio di inimicarsi la potenta Cina, ricca terra senza diritti.
martedì, novembre 27, 2007
di Luca Galassi
PeaceReporter
Trentanove detenuti suicidi dall'inizio dell'anno
Nelle carceri italiane si continua a morire. Per omicidio, per malattia, per overdose, per 'cause da accertare'. Ma soprattutto per suicidio. I detenuti si tolgono la vita con una frequenza venti volte maggiore rispetto alle persone libere. Spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori: strutture fatiscenti, con poche attività ricreative, con scarsa presenza del volontariato. A ottobre si sono suicidate sette persone. Trentanove dall'inizio dell'anno. Quattrocentoventotto dal 2000. I 'casi' registrati dal centro di documentazione 'Ristretti Orizzonti', la fonte più ricca e aggiornata in materia di carceri, non rappresentano però la totalità delle morti che avvengono all'interno dei penitenziari. Sono quelle ricostruire in base alle notizie dei giornali, delle agenzie di stampa, dei siti internet, delle lettere che scrivono i volontari o i parenti dei detenuti. Molte morti passano ancora sotto silenzio, nell'indifferenza dei media e della società.
Giorgio. Il caso più recente di suicidio è quello di Giorgio, detenuto di 48 anni impiccatosi a Prato con i lacci delle scarpe. Aveva passato gli ultimi sei mesi come detenuto modello. Non una sbavatura, non una parola o un gesto fuori dalle regole. Punito con sei anni per crimini sessuali, viene rinchiuso nella sezione 7 del penitenziario, quella più protetta. Il 28 ottobre il compagno di cella di Giorgio rientra, si dirige in bagno, ma la porta è bloccata. Chiama le guardie. E' il corpo di Giorgio che preme, attaccato ai tubi del soffitto con i lacci delle scarpe. Il tentativo di suicidio compiuto in carcere è punito disciplinarmente (come avviene anche per l’autolesionismo, il tatuaggio, il piercing), in base all'articolo 77 del Regolamento penitenziario. Oltre alle possibili sanzioni decise dal Consiglio di disciplina (richiamo, esclusione dalle attività, isolamento), l’infrazione disciplinare comporta la perdita dello sconto di pena per buona condotta (liberazione anticipata). Il codice penale, invece, non considera reato il tentativo di suicidio.
Doppia sofferenza. Quello di Giorgio è un suicidio anomalo, apparentemente senza spiegazione. Spesso le persone che si sono tolte la vita erano affette da malattie invalidanti, o ricoverate nei centri clinici penitenziari. Il fatto di raggruppare i detenuti in base al loro stato di salute, con l'occasione di specchiarsi quotidianamente nella doppia sofferenza dei compagni, quella della detenzione e quella della malattia, contribuisce a far perdere ogni speranza. Nella 'perdita di ogni speranza' c'è forse la spiegazione, elementare e palese, per la maggior parte dei suicidi che avvengono nelle carceri. "Si uccide chi conosce il proprio destino e ne teme l'ineluttabilità", scrive l'associazione 'A buon diritto'. La ricerca di 'Orizzonti ristretti' evidenzia come l'ingresso in carcere, i giorni immediatamente successivi e quelli prima della scadenza della pena siano il momento di rischio più elevato. Si tolgono la vita più frequentemente coloro che hanno ucciso il coniuge, parenti o amici. Più raramente i responsabili di delitti maturati nell'ambito della criminalità organizzata.
Un terzo sono giovani. Alcuni eventi della vita detentiva, poi, sembrano funzionare da innesco rispetto alla decisione di'farla finita': il trasferimento da un carcere all’altro (a volte anche solo l’annuncio dell’imminente trasferimento, verso carceri e situazioni sconosciute), l’esito negativo di un ricorso alla magistratura, la revoca di una misura alternativa, la notizia di essere stati lasciati dal partner. Abbastanza rari, invece, sembrano essere i casi di suicidio direttamente connessi all’arrivo della sentenza di condanna. Circa un terzo dei suicidi aveva un’età compresa tra i 20 e i 30 anni e, più di un quarto, un’età compresa tra i 30 e i 40. In queste due fasce d’età il totale dei detenuti sono, rispettivamente, il 36 percento e il 27 percento: quindi i ventenni si uccidono con maggiore frequenza, rispetto ai trentenni. Nelle altre fasce d’età le percentuali dei suicidi non si discostano molto da quelle del totale dei detenuti.
martedì, novembre 27, 2007
Per conoscere gli altri...
Collocata fra i due colossi asiatici – l’India e la Cina – la penisola indocinese costituisce un luogo di intrecci etnici, culturali e politici di sempre maggiore rilevanza. Teatro di conflitti mondiali e genocidi spaventosi, è attualmente tornata alla ribalta con un nuovo bagno di sangue: dopo la Cambogia e il Vietnam, anche il Myanmar sta pagando con innumerevoli vite il suo anelito alla libertà. Sullo sfondo di scenari idillici e all’ombra di una delle più pacifiche concezioni di vita – il Buddhismo – cinque Paesi affrontano crisi diverse, scatenate dalla stessa causa: la morte di un mondo tradizionale e la faticosa gestazione di uno nuovo. Il convegno si propone di offrire una panoramica generale sulla realtà culturale di quella che è l’Indocina vera e propria – Vietnam e Cambogia – e degli altri stati confinanti, con attenzione alle comuni componenti religiose e politiche, che evidenziano anche come l’immagine e l’identità dell’Indocina siano state deformate dal romanticismo europeo, prima, e dalla spettacolarizzazione americana poi. I diversi relatori affronteranno particolari questioni dei singoli paesi, sottolineando le dinamiche di risposta ai conflitti appena sopiti o ancora in atto, poiché drammaticamente sembra essere questa la costante che lega i vari Paesi.
sabato 1 dicembre 2007 ore 9.30-18.30
Casa della Cultura - via Borgogna 3 – Milano
martedì, novembre 27, 2007
da Radio VaticanaPiù ombre che luci hanno segnato la cronaca recente del calcio italiano, con le derive di violenza che hanno visto un giovane tifoso perdere la vita, come in precedenza e in altre circostanze era stato un ispettore di polizia a cadere senza vita. Le luci sono state "accese" in particolare dalla nazionale di calcio azzurra, guidata dal commissario tecnico,
Roberto Donadoni. Luca Collodi gli ha chiesto un'opinione sugli ultimi avvenimenti e sul bisogno di valori del quale, ora più che mai, il microcosmo del pallone sembra aver bisogno:
(in audio)R. - Credo che il buon senso debba essere risvegliato in noi, altrimenti si corre il rischio di arrivare ad un degrado tale dal quale poi è difficile rientrare.
D. - Quanto pesa sul fattore-violenza l’immagine che la tv e la stampa spesso offrono del calcio e dello sport?
R. - E’ un po’ quanto dicevo prima: il buon senso ha chiaramente una rilevanza importante. In questo, la televisione e la stampa hanno un grande compito. Se riescono ad adoperarsi in maniera costruttiva e positiva, possono dare un enorme apporto. Spesso, secondo me, questo non accade.
D. - Lei è selezionatore della Nazionale, si trova in un ruolo importante. Guarda all’uomo che è dentro un giocatore?
R. - Sicuramente. Credo che tutti questi aspetti abbiano una grande rilevanza e importanza. Ogni giocatore, prima di tutto, è un uomo.
D. - In una precedente intervista ha fatto riferimento a Papa Benedetto XVI e a Giovanni Paolo II. Simpaticamente, se dovesse schierarli in campo, che ruoli attribuirebbe loro?
R. - Credo che in questo momento non ci sia bisogno solo di difensori ma anche di attaccanti, come coloro che chiaramente propongono e danno qualcosa. Quindi, li schiererei chiaramente dal centrocampo in avanti.
D. - Ispiratori del gioco?
R. - Direi di sì, visto che sono anche ispiratori di vita e di comportamento.
D. - Un consiglio, ai giovanissimi che si avvicinano al calcio...
R. - Consiglio di usare molto la propria testa, di non farsi trascinare da consigli sbagliati o da gruppi che non pensano tanto al bene comune, ma più che altro a se stessi.
domenica, novembre 25, 2007
da Asia News
Al termine della messa celebrata con i nuovi cardinali, Benedetto XVI invita ad unirsi alla Giornata di preghiera indetta dai vescovi degli Stati Uniti e chiede i doni "della saggezza e del coraggio" per coloro che partecipano all'incontro.
Città del Vaticano - Preghiamo perché Dio doni la pace ad israeliani e palestinesi: “per il dono della saggezza e del coraggio per tutti i protagonisti” della conferenza di Annapolisi per la pace tra israeliani e palestinesi. L’invito alla preghiera per la pace, che Benedetto XI stamattina aveva rivolto ai nuovi cardinali con i quali ha celebrato una solenne messa nella basilica di San Pietro, lo ha indirizzato, all’Angelus, a tutti i fedeli, perché si uniscano alla Giornata di preghiera annunciata per oggi dai vescovi degli Stati Uniti.
“Martedì prossimo, ad Annapolis, negli Stati Uniti – ha detto, parlando dal sagrato della basilica - israeliani e palestinesi, con l’aiuto della Comunità internazionale, intendono rilanciare il processo negoziale per trovare una soluzione giusta e definitiva al conflitto che da sessant’anni insanguina la Terra Santa e tante lacrime e sofferenze ha provocato nei due popoli. Vi chiedo – ha aggiunto - di unirvi alla Giornata di preghiera indetta per oggi dalla Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America per implorare dallo Spirito di Dio la pace per quella regione a noi tanto cara e i doni della saggezza e del coraggio per tutti i protagonisti dell’importante incontro”.
La preghiera per la pace e l’unità dei ristiani costituisca la “prima e principale missione” dei nuovi cardinali, chiamati, come l’intera Chiesa, ad essere al suo servizio. Era stato il concetto centrale intorno al quale Benedetto XVI ha svolto l’omelia per la solenne messa celebrata nella basilica di San Pietro con i 23 nuovi cardinali, che lo stesso Papa ha creato ieri. Intorno ai nuovi porporati, più di 100 altri cardinali, centinaia di vescovi, sacerdoti e fedeli provenienti per lo più dalle diocesi dei neo-cardinali.
Ai cardinali, il Papa ha però ricordato che “il trono” sul quale è stato innalzato è la Croce e che “l’intera gerarchia della Chiesa, ogni carisma e ministero, tutto e tutti siamo al servizio della sua signoria”.
E’ una cerimonia festosa e suggestiva, nella basilica colorata di fiori, nel corso della quale il Papa consegna ai nuovi porporati l’ultima insegna del loro nuovo ruolo, l’annello cardinalizio e che ha la sua conclusione nel pranzo che Benedetto XVI fa con loro nell’atrio dell’Aula Paolo VI Ma a coloro che da ieri fanno parte del “senato” della Chiesa, Benedetto XVI ha ricordato che proprio su quell’anello è rappresentata la crocefissione. “Questo, cari Fratelli neo-Cardinali, - dice il Papa - sarà sempre per voi un invito a ricordare di quale Re siete servitori, su quale trono Egli è stato innalzato e come è stato fedele fino alla fine per vincere il peccato e la morte con la forza della divina misericordia. La madre Chiesa, sposa di Cristo, vi dona questa insegna come memoria del suo Sposo, che l’ha amata e ha consegnato se stesso per lei (cfr Ef 5,25). Così, portando l’anello cardinalizio, voi siete costantemente richiamati a dare la vita per la Chiesa”.
Benedetto XVI prende poi spunto dalla odiernza ricorrenza liturgica di Cristo Re e “dall’inno cristologico della Lettera ai Colossesi” per dire che “questo testo dell’Apostolo esprime una sintesi di verità e di fede così potente che non possiamo non restarne profondamente ammirati. La Chiesa è depositaria del mistero di Cristo: lo è in tutta umiltà e senza ombra di orgoglio o arroganza, perché si tratta del dono massimo che ha ricevuto senza alcun merito e che è chiamata ad offrire gratuitamente all’umanità di ogni epoca, come orizzonte di significato e di salvezza. Non è una filosofia, non è una gnosi, sebbene comprenda anche la sapienza e la conoscenza. È il mistero di Cristo; è Cristo stesso, Logos incarnato, morto e risorto, costituito Re dell’universo. Come non provare un empito di entusiasmo colmo di gratitudine per essere stati ammessi a contemplare lo splendore di questa rivelazione? Come non sentire al tempo stesso la gioia e la responsabilità di servire questo Re, di testimoniare con la vita e con la parola la sua signoria? Questo è, in modo particolare, il nostro compito, venerati Fratelli Cardinali: annunciare al mondo la verità di Cristo, speranza per ogni uomo e per l’intera famiglia umana”.
“Sulla scia del Concilio Ecumenico Vaticano II – aggiunge - i miei venerati Predecessori, i Servi di Dio Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, sono stati autentici araldi della regalità di Cristo nel mondo contemporaneo. Ed è per me motivo di consolazione poter contare sempre su di voi, sia collegialmente che singolarmente, per portare a compimento anch’io tale compito fondamentale del ministero petrino. Strettamente unito a questa missione – conclude il Papa - è un aspetto che vorrei, in conclusione, toccare e affidare alla vostra preghiera: la pace tra tutti i discepoli di Cristo, come segno della pace che Gesù è venuto a instaurare nel mondo”.
domenica, novembre 25, 2007
Il Dalai Lama arriva a Roma, ma non sarà ricevuto a Montecitorio, per paura di ritorsioni economiche della Cina. Giusto così?
di Fabio Vitucci
A Roma arriva oggi il Dalai Lama, premio Nobel per la pace e personaggio unico nel panorama mondiale. Ma il Governo Italiano non gli concederà l'Aula di Montecitorio. "Nell'emiciclo si svolgono solo lavori parlamentari, non celebrazioni" è la giustificazione di Fausto Bertinotti, presidente della Camera, ma tutti sanno che il vero problema sono le ritorsioni economiche minacciate dalla Cina nei confronti dei paesi che accoglieranno Tenzin Gyatzo (questo il nome del Dalai Lama). Nemmeno Romano Prodi, presidente del Consiglio, e Massimo D'Alema, ministro degli Esteri, sono intenzionati a ricevere l'illustre personaggio.
Le associazioni per i diritti umani sono infuriate con il governo italiano, e anche in Parlamento è nato un accordo trasversale che cercherà di convincere le massime cariche italiane a cambiare idea. Germania, Stati Uniti e Canada hanno già accolto in pompa magna il Dalai Lama (nonostante le minacce prima e le effettive ritorsioni poi contro le loro aziende impegnate con Pechino), ma l'Italia non sembra avere lo stesso coraggio e lo stesso amore per la libertà e i diritti umani. Speriamo che in extremis il governo italiano cambi idea...
domenica, novembre 25, 2007
Kamikaze si fa esplodere: strage di bimbi. Attacco all'inaugurazione di un ponte, muore Daniele Paladini. Tre connazionali feriti e nove vittime civili.
dal Corriere della Sera
KABUL (Afghanistan) - Un militare italiano ucciso e altri tre feriti. Tragico il bilancio di un attentato suicida durante la cerimonia di inaugurazione di un ponte costruito grazie al contributo degli ingegneri italiani. La vittima è Daniele Paladini, 35 anni, maresciallo capo dell'Esercito, del secondo reggimento pontieri di Piacenza. L'esplosione ha causato anche una strage fra i numerosi bambini che erano presenti alla cerimonia: dei nove civili afghani uccisi dall'esplosione, sei sono bimbi.
LA RIVENDICAZIONE - L'attacco, avvenuto a Paghman, a una quindicina di chilometri dalla capitale Kabul, è stato rivendicato dai Talebani. Un portavoce degli studenti coranici, Zabihullah Mujahed, aveva addirittura parlato di quattro soldati italiani uccisi, circostanza questa ovviamente non confermata (i talebani sono soliti amplificare, a scopo di propaganda, gli effetti delle loro azioni). Mujahed, che parlava via telefono satellitare da un'ignota località, ha precisato che il kamikaze apparteneva al proprio movimento. Secondo gli investigatori è probabile che l'attentatore fosse pakistano. Sulla matrice c'è il massimo riserbo e la rivendicazione è tuttora al vaglio degli esperti. Chi sta indagando si limita a sottolineare che un attentato di queste dimensioni era molto tempo che non si registrava nell'area di Kabul, dove sarebbe in atto una sorta di tregua conseguente all'apertura di canali di dialogo tra esponenti del governo locale e alcuni leader taleban. Circostanza, questa, insieme alla tecnica stessa dell'attentato, che «farebbe ipotizzare - secondo una fonte - una regia vicina ad Al Qaeda».
LA VITTIMA E I FERITI - Daniele Paladini era maresciallo capo dell'Esercito, del secondo reggimento pontieri di Piacenza. Non sono in pericolo di vita gli altri militari colpiti (il capitano Salvatore Di Bartolo, dell'11° reparto Infrastrutture di Messina; il capitano Stefano Ferrari, del 2° reggimento Pontieri di Piacenza; il caporale Maggiore scelto Andrea Bariani, del 5° reggimento Alpini di Vipiteno), uno con ferite da schegge al volto (in questo caso ci sono timori per possibili conseguenze alla vista), un altro alla gamba e il terzo con una frattura scomposta al braccio destro ed altre lesioni. I soldati del contingente italiano erano intervenuti alla cerimonia con il preciso compito di garantire l'ordine pubblico.
L'ATTENTATO - L'attentatore suicida si è fatto esplodere alle 9.52 locali, le 6.22 in Italia. Era stato visto dagli stessi militari mentre cercava di risalire a piedi il greto del fiume su cui sorge il nuovo ponte ed è stato intercettato prima che raggiungesse il punto in cui si concentrava il grosso della folla. Alla vista dei militari, da quanto si è appreso, si sarebbe fatto esplodere, coinvolgendo nella deflagrazione le persone che si trovavano in quel momento più vicine a lui. L'intervento dei soldati, che ha impedito al terrorista di raggiungere il centro del ponte, ha evitato che l'attentato causasse una vera e propria carneficina. Tutti i feriti sono stati evacuati con gli elicotteri dell'Isaf e sono stati trasportati negli ospedali della zona.
IL CORDOGLIO DI PRODI - Immediate sono state le reazioni del mondo della politica. Il presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha sottolineato che «l'eroico sacrificio del maresciallo capo Daniele Paladini, caduto in Afghanistan per impedire che il gesto ignobile di un kamikaze provocasse danni ancora più gravi tra la popolazione civile, è in questo momento il mio pensiero più forte e doloroso». All'aeroporto militare di Abu Dhabi Prodi ha accolto i tre militari feriti nell'attentato. Il capitano Salvatore di Bartolo, il capitano Stefano Ferrari e il caporalmaggiore scelto Andrea Bariani, sono atterrati in serata su un C130 dell'aeronautica militare all'aeroporto di Al Bateerod e ripartiranno con un Falcon alla volta dell'Italia. La task force di stanza ad Abu Dhabi serve come supporto logistico e scalo medico per il nostro contingente in Afghanistan. Per Prodi è l'inizio di un viaggio di Stato negli Emirati Arabi.
IL CONTINGENTE - Sono attualmente 2290 i militari italiani dislocati in Afghanistan, di cui 2.160 impegnati proprio nella missione Isaf (International security assistance force). E' il secondo contingente per numero di militari impiegati, dopo quello operativo in Libano, nella missione Unifil, che vede coinvolti 2.450 militari, mentre in Iraq la presenza italiana si limita oggi ad un'ottantina di elementi specializzati che hanno compiti di consulenza, formazione e addestramento.
domenica, novembre 25, 2007
Ventitrè nuovi alti prelati nominati da Benedetto XVI: diciotto hanno diritto di voto in Conclave, cinque sono emeriti. "Rappresentano universalità della Chiesa"
ROMA - "La diversità dei membri del collegio cardinalizio, sia per provenienza geografica che culturale, pone in rilievo la crescita provvidenziale della Chiesa in ogni parte del mondo ed evidenzia al tempo stesso le mutate esigenze pastorali a cui il Papa deve rispondere". Con queste parole, durante l'omelia, Papa Benedetto XVI ha spiegato la varietà dell'attuale Collegio cardinalizio e anche dei ventitrè nuovi cardinali "creati" durante il concistoro nella basilica di San Pietro. Dei nuovi porporati diciotto sono elettori e cinque emeriti.
"L'universalità - ha proseguito il Pontefice - e la cattolicità della Chiesa ben si riflette pertanto nella composizione del collegio dei cardinali: moltissimi sono pastori di comunità diocesane, altri sono al diretto servizio della Sede Apostolica, altri ancora hanno reso benemeriti servizi in specifici settori pastorali".
I diciotto con diritto di voto. Questi i nomi dei diciotto nuovi cardinali con diritto di voto in Conclave, e cioè con meno di 80 anni: Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali; John Patrick Foley, pro-Gran Maestro dell'ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; Giovanni Lajolo, presidente della Pontificia Commissione e del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano; Paul Joseph Cordes, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum; Angelo Comastri, arciprete della Basilica Vaticana.
E ancora: monsignor Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio Consiglio per i Laici; Raffaele Farina, archivista e bibliotecariodi Santa Romana Chiesa; Augustin Garcia-Gasco Vicente, arcivescovo di Valencia (Spagna); Sean Baptist Brady, arcivescovo di Armagh (Irlanda); Lluis Martinez Sistach, arcivescovo di Barcellona (Spagna); Andrè Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi (Francia); Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova (Italia); Theodor-Adrien Sarr, arcivescovo di Dakar (Senegal); Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay (India); Francisco Robles Ortega, arcivescovo di Monterrey (Messico); Daniel Di Nardo, arcivescovo di Galveston-Houston (Usa); Odilio Pedo Scherer, arcivescovo di San Paolo (Brasile); John Njue, arcivescovo di Nairobi (Kenya).
I cinque emeriti. Il 17 ottobre scorso, quando diede l'annuncio sulle nuove nomine, dopo aver elencato i diciotto cardinali elettori, Ratzinger affermò: "Desidero elevare alla dignità cardinalizia tre venerati presuli e due benemeriti ecclesiastici, particolarmente meritevoli per il loro impegno al servizio della Chiesa".
Questi i nomi dei porporati non elettori: Emmanuel III Delly, patriarca di Babilonia dei Caldei (Bagdad): Giovanni Coppa, nunzio apostolico; Estanislao Esteban Karlic, arcivescovo emerito di Paranà (Argentina), Urbano Navarrete, già rettore della Pontificia Università Gregoriana; Umberto Betti, già rettore della Pontificia Università Lateranense.
"Tra questi ultimi - spiegò sempre il 17 ottobre il Pontefice - è stato mio desiderio elevare alla porpora anche l'anziano vescovo Ignacy Jez, di Koszalin-Kolobrzeg, in Polonia, benemerito presule, che ieri è improvvisamente mancato. A lui va la nostra preghiera di suffragio".
sabato, novembre 24, 2007
Manifestazione contro la violenza sulle donne per le strade della Capitale. Un corteo animato, forse troppo: contestate le parlamentari Prestigiacomo e Carfagna, le ministre Melandri e Pollastrini e alcuni giornalisti uomini.
Donne in piazza a Roma contro la paura. In 150 mila - secondo gli organizzatori - per dire no alla violenza alle donne. Una piaga diffusa soprattutto dentro alle mura domestiche e che rappresenta la prima causa di morte femminile. Un corteo multicolore affollato anche da islamiche e rom. Variopinto da striscioni e scandito da slogan contro il «pacchetto sicurezza» approvato qualche settimana fa dal governo ma anche contro le azzurre Prestigiacomo e Carfagna, allontanate dal corteo come pure due cronisti uomini. Le ultime costrette a «lasciare» sono state le ministre Livia Turco e Giovanna Melandri: duramente contestate in piazza Navona da un gruppo di partecipanti (al grido di «Vergogna, vendute») hanno abbandonato il palco dove avrebbero dovuto effettuare un collegamento in diretta tv con La7.
GLI SLOGAN CONTRO IL PACCHETTO SICUREZZA - Tra gli slogan contro il pacchetto sicurezza «Se la violenza è in casa che ci faccio con più polizia?» recita uno. «Non ci stiamo in un pacchetto violenza, vogliamo cultura del rispetto» si legge in un altro. «Se la violenza è sotto al tetto cosa faccio con questo pacchetto?» chiede un altro. «Vogliamo denunciare che con la scusa della violenza, il tragico episodio della Reggiani è stato strumentalizzato dal governo per dare vita a un pacchetto sicurezza xenofobo e razzista - spiega Monica Pepe, una delle organizzatrici -. A nostro avviso ci vuole un cambiamento culturale nella battaglia contro la violenza non servono i provvedimenti repressivi e inutili».
PRESTIGIACOMO E CARFAGNA CONTESTATE - Nel mirino delle manifestanti anche le azzurre Stefania Prestigiacomo e Mara Carfagna presenti alla manifestazione organizzata dal cartello di associazioni femministe Controviolenzadonne: «Fuori i fascisti da questo corteo» è lo slogan scandito contro le due parlamentari di Forza Italia. Le due deputate, fortemente contestate, si sono difese spiegando che: «la violenza sulle donne non può e non deve avere colore politico». L'ex ministro per le Pari opportunità si difende da chi le dice «potevi venire con i tacchi a spillo» dicendo che è stato sotto il suo ministero che sono state varate le prime norme antiviolenza, e poi «in Parlamento c'è sempre stato un fronte trasversale tra donne».
VIA I CRONISTI UOMINI - Atttaccati anche gli uomini. Due cronisti maschi di agenzie di stampa e un fotografo sono stati allontanati a spintoni dal corteo: «Siete uomini uscite da questo corteo» sono stati apostrofati i cronisti che hanno replicato: «Siamo qui per lavorare e per informare i cittadini delle vostre proteste». In loro difesa è intervenuta Livia Turco, presente tra le manifestanti: «Il dissenso nei confronti dell'onorevole Prestigiacomo è stato espresso solo da una minoranza esigua» ha spiegato il ministro della salute Livia Turco «spero vivamente che Prestigiacomo torni a sfilare insieme a noi».
COMMOSSA DACIA MARAINI - Stessa speranza da parte di Dacia Maraini, presente al corteo: «Sono contraria a cacciare chiunque da un corteo, anche gli uomini su questo tema possono essere nostri alleati». A parte questi episodi, la scrittrice si è detta commossa: «Era dagli anni '70 che non si vedeva una manifestazione di questo tipo e con questa partecipazione. La violenza è un problema sentito da tutte le donne - ha proseguito - si tratta di una questione culturale: bisogna agire su questo aspetto».
NAPOLITANO: APPROVARE SUBITO LA LEGGE - A livello politico da registrare l'intervento di Napolitano. Il presidente della Repubblica ha auspicato che la proposta di legge per tutelare le donne venga approvata al più presto in Parlamento. In una lettera inviata al ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini per la Giornata internazionale Onu contro la violenza alle donne (domenica 25), il capo dello Stato ha anche sostenuto che si debba cominciare dalle scuole ad educare a rispettare i diritti delle persone.
POLLASTRINI: IN GIOCO I DIRITTI UMANI - A Napolitano è andata la personale riconscenza del ministro Pollastrini che parla di «strage delle innocenti» e risponde al messaggio del presidente della Repubblica, sottolineando come quella della violenza sulle donne sia una «emergenza culturale, prima di tutto». «Tutte le cifre e le statistiche ci danno la prova di un'emergenza drammatica» ha detto. L'Italia «deve conoscere, al pari di Spagna, Francia e altri grandi paesi, un vero Piano Integrato d'Azione contro la Violenza sulle Donne. Servono risorse, e i venti milioni della Finanziaria del 2008 sono un primo segno positivo. Ma servono anche campagne di formazione e di informazione. Serve dare valore alle Case delle donne, ai Centri antiviolenza e a una rete diffusa di servizi sociali».
TURCO: «PRESTO SPORTELLI DEDICATI»- «La violenza contro le donne rende più incivile, fragile, insicuro il nostro paese» denuncia il ministro della salute in un messaggio di adesione inviato alle organizzatrici della manifestazione. «I dati sulla violenza contro le donne si ripetono, anno dopo anno, drammatici, indecenti - sottolinea la Turco che annuncia di voler combattere il fenomeno «a partire dall'informazione e dall'educazione nelle scuole, alla formazione di tutti gli operatori, prevedendo l'apertura di uno Sportello dedicato in ogni Pronto Soccorso e di Centri Regionali di riferimento, aperti per 24 ore».
MELANDRI: «GIORNATA ROVINATA» - «Dispiace che questa grande manifestazione sia stata rovinata dalla violenza verbale di alcune donne». Così il ministro per le Attività giovanili Giovanna Melandri ha commentato la dura contestazione ricevuta. Insieme a lei il ministro della Salute Livia Turco: «Le contestazioni di alcuni gruppi - ha commentato - vanno a scapito delle donne, contro la loro forza e danneggiano le migliaia di partecipanti alla manifestazione».
BINDI: TOLLERANZA ZERO - Contro la violenza sulle donne il ministro della Famiglia Rosy Bindi invoca la «tolleranza zero», una rapida approvazione delle «norme del disegno di legge sulla violenza stralciate dalla Commissione Giustizia, ma anche - conclude - approvare presto tutto il complesso della proposta di legge e realizzare quella rete di servizi territoriali indispensabile a sostenere le donne, le madri, le bambine, le ragazze che subiscono violenze, abusi e maltrattamenti. E’ un obiettivo di civiltà cui non possiamo rinunciare».
DIRETTA LA7 - Una dura nota in merito alle contestazioni è arrivata dalla direzione del tg de La7, costretta a interrompere la diretta. «Vedere giornalisti messi in condizione di non svolgere il proprio lavoro, dover interrompere la trasmissione in diretta in nome di un malinteso veterofemminismo, fa soltanto cadere le braccia», si legge in una nota, che esprime «piena e convinta solidarietà a Giulia Buongiorno, Mara Carfagna, Giovanna Melandri, Alessandra Mussolini, Barbara Pollastrini, Stefania Prestigiacomo, Livia Turco». E ancora: «In merito alla presa di posizione del comitato organizzatore della manifestazione contro la violenza sulle donne (che ha parlato di una strumentalizzazione da parte di La7, ndr), la direzione precisa che la diretta è stata organizzata durante la settimana coordinandosi con il comitato promotore. Durante la marcia, le nostre telecamere hanno dato voce alle diverse anime del movimento e alle loro rivendicazioni. Stupisce la sorpresa di chi, in nome di una sacrosanta mobilitazione contro la violenza sulle donne, ha allontanato altre donne - di destra o di sinistra, ha ben poca importanza - considerandole alla stregua di "corpi estranei"».