lunedì, febbraio 29, 2016
Sta per suonare il requiem dell’art. 29 della Costituzione?

 di Bartolo Salone

Con il maxiemendamento 1.10000 approvato dall’Assemblea di Palazzo Madama giovedì 25 febbraio 2016 – interamente sostitutivo del ddl A.S. n. 2081 (c.d. “ddl Cirinnà”), recante regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze di fatto – sul quale il Governo ha posto la questione di fiducia, vengono apportate le seguenti novità all’originario impianto del progetto di legge: non è più prevista la stepchild adoption (ossia, la possibilità per uno dei due partner omosessuali di adottare il figlio naturale dell’altro), viene meno il riferimento all’obbligo di fedeltà nelle unioni civili nonché l’obbligo di mantenimento in caso di cessazione della convivenza di fatto. Per il resto, viene recepito integralmente il ddl Cirinnà. Adesso la parola passa alla Camera.

Benché l’intero dibattito di questi giorni si sia concentrato sulla tematica delle unioni civili e del diritto dei membri di una coppia omosessuale di adottare il figlio naturale dell’altro – ipotesi alla fine non recepita dal Senato a motivo delle preoccupazioni legate al fatto che l’adozione coparentale in questa particolare fattispecie potesse dare la stura, o comunque costituire una sorta di ratifica legale, ad un progetto di genitorialità fortemente deficitario in quanto volto all’inserimento fin dalla nascita di un bambino in un contesto familiare privo della figura materna o paterna mediante il ricorso all’estero alla fecondazione eterologa o all’utero in affitto da parte di una coppia omosessuale – in realtà il testo da poco approvato e che a breve passerà all’esame della Camera dei Deputati introduce anche una puntuale disciplina delle convivenze di fatto tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso, accanto a quella delle unioni civili, riservata unicamente alle coppie omosessuali. Esaminiamo sommariamente i caratteri dei due istituti, partendo dalle norme del maxiemendamento da poco approvato in Senato.

Le convivenze di fatto (commi da 36 a 69 dell’articolo unico del maxiemendamento).

Per “conviventi di fatto”, secondo la nuova disciplina, debbono intendersi due persone maggiorenni (non importa se di sesso diverso o dello stesso sesso) unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.

Per l’accertamento di una stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione resa all’anagrafe dagli stessi interessati attestante l’esistenza di un legame affettivo avente i caratteri sopra indicati.

Ai conviventi di fatto vengono estesi alcuni dei diritti tradizionalmente spettanti al coniuge. In particolare, ai conviventi di fatto spettano gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario; i conviventi di fatto, in caso di ricovero o malattia, hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali secondo le regole previste dalle strutture sanitarie per i coniugi e i familiari; al convivente di fatto superstite, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, è riconosciuto il diritto di abitazione per un periodo pari alla durata della convivenza e comunque non inferiore a due e non superiore a cinque anni; in caso di decesso del convivente di fatto derivante da fatto illecito di un terzo, il convivente superstite ha diritto al risarcimento del danno con i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite; i conviventi di fatto, a parità di condizioni, hanno diritto di essere inseriti nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare allo stesso modo delle coppie coniugate; se prestano stabilmente la loro opera all’interno dell’impresa del convivente, hanno diritto di partecipare agli utili in rapporto al lavoro prestato; il convivente di fatto, infine, ha il diritto di essere nominato in via preferenziale tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner dichiarato interdetto o inabilitato o che presenti i requisiti per l’amministrazione di sostegno.

Il maxiemendamento ha eliminato, in caso di cessazione della convivenza di fatto, il diritto al mantenimento e agli alimenti del convivente che versi in stato di bisogno e che non sia in grado di far fronte al proprio sostentamento (diritto che il ddl Cirinnà, al contrario, riconosceva per un periodo proporzionato alla durata della convivenza).

Attraverso la stipulazione di un contratto di convivenza, redatto per atto pubblico, inoltre, le parti disciplinano i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune e fissano la comune residenza. Il contratto può prevedere le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale e casalinga, nonché il regime patrimoniale della comunione dei beni (modificabile in qualunque momento e comunque destinato a venire meno con la cessazione della convivenza). Il contratto di convivenza si risolve inoltre per accordo tra le parti o recesso unilaterale o in caso di morte o matrimonio o successiva unione civile di una delle parti.

Le unioni civili (commi da 1 a 35 del maxiemendamento).

Oltre al diritto di costituire una convivenza di fatto e di stipulare un contratto di convivenza, a due persone maggiorenni dello stesso sesso viene riconosciuto il diritto di costituire una unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni e con successiva registrazione dell’ atto di unione civile nell’archivio dello stato civile.

La regolamentazione delle unioni civili ricalca pedissequamente quella del matrimonio per ciò che riguarda il cognome del partner, le cause impeditive, le cause di nullità, la separazione e lo scioglimento, il regime patrimoniale e i diritti successori, ed è forse questa la ragione per cui i promotori del disegno di legge hanno ritenuto di dover riferire questo istituto unicamente alle coppie dello stesso sesso, avendo già le coppie eterosessuali la possibilità di accedere all’istituto matrimoniale. La volontà di creare per le coppie omosessuali un istituto giuridico il più possibile omogeneo al matrimonio emerge del resto dalla clausola di equiparazione contenuta nel comma 20, a mente della quale “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole coniuge, coniugi o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti, nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.

Al fine di mitigare siffatta equiparazione, il maxiemendamento, recependo le indicazioni provenienti da una parte consistente della società civile e del mondo politico, tuttavia, ha introdotto dei temperamenti, facendo salva la disciplina delle adozioni e in particolare escludendo il diritto all’adozione in casi particolari per i membri dell’unione, e abolendo l’obbligo di fedeltà reciproca. Per il resto, dalla stipulazione di una unione civile derivano gli stessi diritti e doveri derivanti dal matrimonio. Infatti, il comma 11 del maxiemendamento recita, parafrasando l’art. 143 cod. civ., che “Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”. Inoltre il comma 12, riprendendo la formulazione dell’art. 144 cod. civ., afferma che “Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta di attuare l’indirizzo concordato”.

L’impressione che si ricava da questa breve rassegna è che i promotori del ddl Cirinnà e del maxiemendamento abbiano inteso istituire, seppure sotto la asettica dizione di “unione civile”, qualcosa di molto simile al matrimonio. Al di là della evidente “frode delle etichette”, non si può non osservare come l’introduzione di un istituto paramatrimoniale per le coppie omosessuali equivale a svilire la stessa nozione di matrimonio prevista dalla Costituzione, ponendo sullo stesso piano condizioni (quella della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale) che, anche secondo la nostra Corte costituzionale (sentenza n. 138/2010), in linea di principio non possono essere ritenute omogenee.

Il quadro, poi, è destinato a complicarsi inevitabilmente a motivo della previsione di quegli istituti che, come i contratti di convivenza, potranno essere utilizzati per definire, nell’ambito di una convivenza more uxorio e in alternativa al matrimonio, importanti aspetti della vita in comune. Dalla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, laddove la legge fosse approvata anche alla Camera nel testo da poco licenziato in Senato, si passerebbe ad una famiglia fondata indifferentemente, a seconda delle contingenze o delle preferenze individuali, sul matrimonio ovvero su convivenze di fatto registrate all’anagrafe o su contratti di convivenza ovvero su unioni civili tra persone dello stesso sesso. Che si stia per suonare il requiem aeternam dell’art. 29 della Costituzione? Ai nostri parlamentari la risposta.


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