sabato, febbraio 13, 2016
Il Consiglio dei ministri ha infine fissato il referendum sullo stop alle trivelle: la consultazione si terrà il 17 aprile. 

di Lorenzo Carchini

Sinistraineuropa - Il Cdm ha, dunque, approvato il decreto per l’indizione del referendum popolare relativo all’abrogazione della previsione che le attività di coltivazione di idrocarburi relative a provvedimenti concessori già rilasciati in zone di mare entro dodici miglia marine hanno durata pari alla vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale.

L’Election Day non ci sarà. Una decisione che ha sollevato, sin dalla giornata di ieri, un’ondata di polemiche che vanno ben oltre la semplice militanza partitica. La spaccatura fra regioni e governo sul fronte ambiente rischia di diventare insanabile, mentre nel centro-sinistra è palpabile l’imbarazzo di chi, soltanto nel 2011 – non una vita fa – aveva tuonato contro il governo Berlusconi, accusandolo di non aver voluto accorpare i referendum su nucleare, acqua e legittimo impedimento, con le Amministrative col chiaro intento di boicottarne il quorum.

Se la rinuncia, pochi giorni fa, da parte della Petrolceltic di cercare petrolio a largo delle Tremiti aveva portato un’iniezione d’entusiasmo fra le regioni e gli ambientalisti, oggi prevale un senso di amarezza.

I primi ad entrare a gamba tesa sono la stessa minoranza Pd in parlamento (“una scelta incomprensibile” secondo Speranza) ed i presidenti regionali. Si è dimostra “poco rispetto per le regioni”, secondo il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano (Pd), “il referendum è uno strumento di democrazia partecipata, quando viene invocato dovrebbe essere agevolato […] e non pregiudicato”, unendosi all’appello del presidente del Consiglio regionale della Basilicata, Piero Lacorazza (Pd) invocando l’intervento dello stesso presidente Mattarella perché “respinga la data proposta dal governo per consentire una votazione effettivamente democratica”. Lo stesso Lacorazza si è detto dispiaciuto “che il presidente del Consiglio non abbia voluto cogliere la vera sfida che il quesito referendario[…] pone a chi governa: la necessità di attivare un percorso democratico, di coinvolgere le istituzioni di prossimità e i territori nelle decisioni che li riguardano”. Nel silenzio tombale del centro-destra, infine, l’unica voce è stata quella del Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, che ha criticato la scelta governativa: “Non favorisce certo la consultazione”.

Per il Movimento No-Triv, la decisione del governo costituisce uno “schiaffo alla democrazia”, dettato da un governo che “nel giorno stesso in cui rinvia il provvedimento per l’erogazione degli indennizzi ai risparmiatori di Banca Etruria, pari a 200 milioni, brucia 360 milioni di euro per impedire l’Election Day”. Una decisione doppiamente grave, ha spiegato Enzo Di Salvatore, “perché dinanzi alla Corte costituzionale pendono ancora due conflitti di attribuzione che potrebbero salvare due ulteriori quesiti”. Su due dei cinque quesiti decaduti dopo l’intervento del governo in Legge di Stabilità, infatti, sei regioni (Basilicata, Sardegna, Veneto, Liguria, Puglia e Campania) avevano deciso di presentare un conflitto d’attribuzione. In particolare sul “Piano delle Aree” e sulle proroghe dei titoli.

Il primo era stato introdotto dal decreto Sblocca Italia ed obbligava il governo e le regioni a definire quali fossero le aree in cui era possibile avviare i progetti di trivellazione, tenendo conto del specificità territoriali. Uno strumento di pianificazione che richiedeva la partecipazione attiva delle regioni, ma che era stato abrogato in Legge di Stabilità, sollevando, secondo i promotori del referendum, un conflitto d’attribuzione (col parlamento che avrebbe violato l’attribuzione che l’articolo 75 della Costituzione assegna al comitato promotore). L’altro riguardava l’introduzione nello Sblocca Italia del “titolo concessorio unico”, che andava a sostituire le vecchie forme di permessi e concessioni per le trivellazioni rilasciate alle società petrolifere, prevedendo che alla società fosse concesso di fare ricerca ed estrazione con un’unica richiesta, velocizzando la procedura (qui il conflitto starebbe nel fatto che spetterebbe ai promotori sottoporre gli elettori alla loro richiesta e non al parlamento modificarla in modo da aggirare il quesito stesso).

Questo “spacchettamento” costituirebbe “un evidente tentativo di boicottare il referendum” (Di Salvatore), dal momento che nel caso in cui l’esito del conflitto fosse positivo, il voto potrebbe svolgersi su ben tre quesiti, ma, dinanzi alla decisione del Cdm, ci si ritroverebbe di fronte ad una situazione paradossale: un quesito, quello finora approvato, verrebbe presentato il 17 aprile, mentre per gli altri bisognerebbe rinviare (forse per giugno?) col possibile risultato di chiamare gli italiani alle urne per addirittura quattro volte (tra referendum e Amministrative).

Opposizione in blocco per le associazioni ambientaliste, WWF, Greenpeace e Legambiente. Secondo Andrea Boraschi (Greenpeace) la decisione è “antidemocratica e scellerata, una truffa pagata coi soldi degli italiani”, ricordando la petizione lanciata nei giorni scorsi per chiedere al premier Renzi e al ministro Alfano la promozione dell’Election Day e appellandosi al presidente Mattarella perché respinga la data proposta. “Questa consultazione disturba” ha affermato Rosella Muroni (presidente di Legambiente), “evidentemente l’esecutivo teme che gli italiani ne valutino fino in fondo la portatae si dimostra riluttante ad affrontare seriamente e democraticamente la questione energetica”. Fa eco Dante Caserta (WWF): “Il mancato accorpamento del referendum ‘no-triv’ con le Amministrative è una scelta insostenibile sia dal punto di vista della tutela ambientale, che da quello dei conti dello Stato. […] Si preferisce sprecare tutti quei soldi (circa 300 milioni, ma le cifre sono variabili, ndr) e obbligare i cittadini a recarsi alle urne quattro volte nel giro di pochi mesi”.

Alla luce di quanto stabilito, la scelta della data potrebbe costituire un’ennesima occasione mancata per il governo, rifiutando quello sarebbe stato un semplice atto di buonsenso, quantomeno per evitare alle case statali una spesa facilmente aggirabile. La parola andrà ora alla Corte costituzionale, che nel caso dovesse accettare i conflitti d’attribuzione aprirebbe ad un caos referendario di cui, in questo momento, il Governo Renzi – tra recessione economica mondiale, isolamento in Europa e diritti civili in Italia – non sembra sentirne il bisogno.


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