Tradizione di dominio e interessi consistenti dei militari influenzano ancora le loro azioni e si riflettono non solo sulla realtà quotidiana del paese, ma rischiano anche di bloccarne la crescita democratica e le necessarie riforme: nel loro complesso, le forze armate rappresentano ancora una minaccia per la popolazione civile e lo sviluppo democratico.
Misna - A sostenerlo è il Centro per i diritti umani della Scuola di Diritto della prestigiosa università statunitense di Harvard (Policy Memorandum: Preventing Indiscriminate Attacks and Wilful Killings of Civilians by the Myanmar Military) descrive il ruolo militare imposto per decenni sulla vita pubblica e identifica politiche e pratiche alla base di questo ruolo. Proponendo anche un concreto programma di riforma.
“Le forze armate birmane devono rinunciare pubblicamente alle politiche che per lungo tempo sono risultate in attacchi contro i civili e violazioni delle legi umanitarie internazionali”, indica Matthew Bugher, tra gli organizzatori della ricerca. “Fino a quando politiche e pratiche problematiche non saranno radicalmente modificate, i civili resteranno a rischio ovunque vi siano reparti militari”.
Nel migliaio di pagine del lavoro, sono pubblicate decine di interviste con sopravvissuti di azioni militari e diversi ex soldati. Tutto il materiale è riferito alle offensive militari nel Myanmar orientale nel periodo 2005-2008.
Molte le uccisioni di donne, bambini e anziani derivate dall’ordine di sparare a vista dato dai comandanti in molte situazioni. Le testimonianze descrivono anche esecuzioni sommarie, l’uso di mine in centri abitati e bombardamenti indiscriminati su villaggi e terreni agricoli.
In tempi recenti, con una serie di cessate il fuoco separati frmati con diversi gruppi etnici, gli attacchi da parte governativa su obiettivi civili sono fortemente diminuiti, tuttavia restano numerose le testimonianze di abusi che continuano nell’impunità. I miglioramenti, nei fatti, derivano da conflitti più limitati e non da modifiche nell’atteggiamento degli uomini in divisa.
Proprio ai paramilitari che hanno sparato per disperdere una folla di buddhisti nazionalisti che mercoledì notte ha attaccato le sedi di ong impegnate nell’aiuto ai musulmani di etnia Rohingya nello stato di Rakhine, sarebbe da addebitarsi la morte di una bambina di 11 anni rimasta uccisa da un proiettile nella sede del Programma alimentare mondiale nella città di Sittwe.
Misna - A sostenerlo è il Centro per i diritti umani della Scuola di Diritto della prestigiosa università statunitense di Harvard (Policy Memorandum: Preventing Indiscriminate Attacks and Wilful Killings of Civilians by the Myanmar Military) descrive il ruolo militare imposto per decenni sulla vita pubblica e identifica politiche e pratiche alla base di questo ruolo. Proponendo anche un concreto programma di riforma.
“Le forze armate birmane devono rinunciare pubblicamente alle politiche che per lungo tempo sono risultate in attacchi contro i civili e violazioni delle legi umanitarie internazionali”, indica Matthew Bugher, tra gli organizzatori della ricerca. “Fino a quando politiche e pratiche problematiche non saranno radicalmente modificate, i civili resteranno a rischio ovunque vi siano reparti militari”.
Nel migliaio di pagine del lavoro, sono pubblicate decine di interviste con sopravvissuti di azioni militari e diversi ex soldati. Tutto il materiale è riferito alle offensive militari nel Myanmar orientale nel periodo 2005-2008.
Molte le uccisioni di donne, bambini e anziani derivate dall’ordine di sparare a vista dato dai comandanti in molte situazioni. Le testimonianze descrivono anche esecuzioni sommarie, l’uso di mine in centri abitati e bombardamenti indiscriminati su villaggi e terreni agricoli.
In tempi recenti, con una serie di cessate il fuoco separati frmati con diversi gruppi etnici, gli attacchi da parte governativa su obiettivi civili sono fortemente diminuiti, tuttavia restano numerose le testimonianze di abusi che continuano nell’impunità. I miglioramenti, nei fatti, derivano da conflitti più limitati e non da modifiche nell’atteggiamento degli uomini in divisa.
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