mercoledì, ottobre 31, 2012
Intervista al cronista campano che attribuisce al giornalismo una forza nobile, in grado di infondere coraggio a chi intende opporsi alla mafia

di Paola Bisconti

Quando si legge un articolo di Arnaldo Capezzuto si ha l’impressione di ricevere un pugno nello stomaco. Sembra quasi di avere l’autore di fronte che, guardandoci fisso negli occhi, ci invita a reagire di fronte al marciume che sta corrodendo Napoli e tutta l’Italia. Il giornalista campano quando scrive non si rivolge alla schiera di camorristi, spacciatori o omertosi ma chiama in causa tutti gli altri e attraverso le sue espressioni così sincere e viscerali è in grado di scuotere le coscienze e coinvolgere il lettore fino a fargli provare la sua stessa rabbia. Il suo obiettivo è cambiare le cose attraverso la scrittura, perché Arnaldo è consapevole che la verità raccontata sui fogli di giornale fa male a tutte quelle persone che vivono di affari sporchi, droga, tangenti e traffici illeciti.

Arnaldo Capezzuto ha iniziato la sua attività collaborando con “La Verità”, un quotidiano locale, il cui nome era già un segno del destino. Come tutti ha fatto i suoi anni di gavetta, quello che definisce “volontariato giornalistico”, che gli ha permesso di imparare molte cose e capire come muoversi in una terra che non intende lasciare ma in cui non vuole certo convivere con la camorra. Tutt’altro: Arnaldo nelle sue inchieste sfida, sbeffeggia, denuncia, ridicolizza la mafia.

Spesso accade però che questi colpi gli tornano indietro duramente: ha subito infatti 12 aggressioni, numerose minacce anche di morte, è stato ripetutamente ricoverato in ospedale e fa i conti quotidianamente con la paura. Ma Arnaldo è un giovane che ha trovato il coraggio di denunciare i suoi nemici: è accaduto in seguito alle rivelazioni riguardo all’uccisione di Annalisa Durante, una delle tante vittime innocenti di mafia, assassinata il 26 marzo del 2004 durante un agguato camorristico a Forcella. Le sue dichiarazioni hanno aperto il processo che ha portato alla condanna del figlio del boss Giuliano, autore dell’omicidio nonché artefice degli attacchi violenti e intimidatori fatti ad Arnaldo. Ad occuparsi del fatto però sono stati in pochi, quasi a non voler dare importanza alla vittoria di “Golia contro il gigante”. Uno dei tanti problemi che affliggono i giornalisti, infatti, non è solo il rischio di vendetta dei criminali ma anche la “precarietà” professionale in termini di libertà di stampa e di espressione.

Arnaldo Capezzuto è uno dei 9 autori del libro “Il Casalese. Ascesa e tramonto di un leader politico di Terra di Lavoro”, pubblicato dalla casa editrice Cento Autori, che è stata denunciata insieme allo stampatore. Inoltre ha subìto la richiesta di risarcimento danni di 1 milione e 200mila euro da parte di Giovanni Cosentino, fratello di Nicola, protagonista del manoscritto dove è raccontata la sua escalation al potere da consigliere comunale di Casal di Principe a potente coordinatore del Pdl. In realtà Nicola Cosentino, come hanno dichiarato sei collaboratori di giustizia, è il referente nazionale del clan dei Casalesi, ma grazie al voto della Camera dei Deputati è riuscito ad evitare due mandati di arresto con l’accusa di associazione estera. Ecco perché la distribuzione del libro era ritenuta così pericolosa che i parenti di Cosentino si sono affrettati a richiedere immediatamente il sequestro e la distribuzione del testo.

Arnaldo oggi collabora con importanti testate giornalistiche nazionali e dirige “La domenica settimanale” che fa parte del progetto “I Siciliani Giovani”. Fa parte di “Ossigeno per l’Informazione”, l’osservatorio dei giornalisti minacciati, e ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti come il premio Paolo Giuntella e il Journalist Award per alcune inchieste sull’attacco dei campi rom di Ponticelli da parte della camorra. Ha partecipato alla realizzazione dei documentari “Cronisti di strada” e “Il business dei baby melodici”.

Noi de “La Perfetta Letizia”, oltre ad aver ospitato alcune riflessioni tratte dal suo blog che appare su “Il Fatto Quotidiano”, abbiamo avuto il piacere di intervistarlo e conoscerlo più da vicino.

D - Lei è uno di quei giornalisti che non intende rassegnarsi e che scrive spinto da un desiderio di giustizia. Ma i recenti fatti, come l’assassinio di Pasquale Romano, dimostrano che non si arresta questa battaglia violenta, dove ad avere la peggio sono sempre persone innocenti. Come si può esorcizzare questo demonio sociale?
R - Vorrei scindere dalla domanda perché penso che un giornalista per fare questo mestiere deve rapportarsi alla realtà che incontra. Il lettore, infatti, cerca una strada attraverso gli articoli perché è qui che vuole trovare sostegno colui che è disorientato. Io intendo il giornalismo come una forza nobile, in grado di suscitare indignazione. Per esempio, quando ho iniziato a seguire la vicenda di Annalisa Durante, anche lei vittima innocente della mafia, scrivevo per un piccolo giornale che mi ha permesso di muovermi liberamente, senza vivere con l’ansia della competizioni con altre grandi testate. Così ho iniziato a fare giornalismo d’inchiesta, come lo fece il grande Pippo Fava, fondatore de i “Siciliani giovani”, un progetto editoriale, che da poco è tornato ad essere attivo. Ma questo tipo di giornalismo dà fastidio soprattutto a Napoli. L’omicidio di Pasquale Romano ha riacceso la rabbia contro la camorra perché non è più accettabile che si continui a morire ingiustamente. Poi accade che, quando si raccontano queste storie che si seguono da vicino, si osserva il corpo ancora ricoperto di sangue, si sta accanto ai parenti e si assorbe tutta la loro sofferenza. Segue il lavoro degli avvocati che cercano una scappatoia, fanno ridurre le pene ai colpevoli e poi la solita retorica di circostanza alla quale io non ci credo più.

D - Le sue battaglie a favore della libertà di stampa accendono i riflettori su un’informazione italiana ancora succube di poteri oligarchici. Come si possono stimolare gli aspiranti giornalisti a svolgere inchieste scottanti se vige una precarietà che non favorisce certo la tutela del reporter?
R - Quando ho scritto insieme ad altri 8 colleghi la storia di Nicola Cosentino nel libro “Il Casalese” sentivamo la necessità di raccontare quello che sui giornali non ci facevano pubblicare. Non è stato facile, infatti, trovare un editore coraggioso e disposto a rischiare come abbiamo fatto noi autori che abbiamo subito delle ritorsioni. C’è un problema serio nel mondo del giornalismo che oltre alla precarietà e alla retribuzione con la quale a malapena si riescono a pagare le spese del telefono, i cronisti vivono con il peso sulla schiena di una querela. Molto spesso si tratta di denunce intimidatorie fatte da chi vuole imporre un bavaglio, proprio come quello che sta accadendo dopo i fatti legati alla vicenda di Sallusti: si eviterà il carcere ma ci saranno tante restrizioni che non avrà più senso scrivere, indagare e denunciare. Ci limiteremo a riportare i comunicati stampa.

D - Recentemente a Caivano, in provincia di Napoli, don Maurizio Patricello, prete anti-clan, si è rivolto al prefetto di Caserta Carmela Pagano chiamandola “signora”, mandando su tutte le furie il prefetto di Napoli De Martino che ha lo rimproverato severamente. Il fatto ha destato sconcerto, visto anche il tono rispettoso di don Maurizio. Ciò che si invece nota, anche dai video, è la contrarietà di De Martino ad ascoltare l’intervento del parroco. Cosa ne pensa di questa vicenda?
R - L’intervento di De Martino è stato poco piacevole, una risposta che il prefetto avrebbe potuto dire con più calma, però ci tengo a precisare che è una persona molto disponibile, attento al sociale, attivo nella lotta anticamorra. Dopo qualche giorno, infatti, De Martino ha convocato don Maurizio, “il sacerdote di strada”, e davanti alle telecamere ha chiesto scusa. L’incidente si è risolto con una sincera stretta di mano.

D - Lei ha detto: “Napoli non è una città normale e non è sbagliato paragonarla a Baghdad”. L’educazione alla legalità, l’informazione indipendente, una classe dirigente lontana dalla corruzione potrebbero portare i loro frutti lì dove vige la camorra?
R - La città è stanca e disorientata. Fino a qualche anno fa Napoli ha dimostrato di saper risalire, ma ora non dà più nessun segno di reazione. È comprensibile che il corpo sociale abbia paura, ma non accetto che le grandi istituzioni trascurino la gravità della situazione. Napoli ha bisogno di segnali forti. Penso alla riqualificazione delle Vele, del degrado che c’è in quel quartiere e alla bruttezza architettonica. Molte autorità locali hanno proposto l’abbattimento ma sono sicuro che ci vorranno minimo 20 anni affinché si realizzi il progetto. Qui invece occorre l’intervento immediato da parte del Governo, che dia disposizioni per la distruzione degli edifici nell’arco di 24 ore. Tutti sappiamo che lì vige la camorra, non sono altro che “pezzi di città dentro la città”.

D - Nei suoi articoli si indigna di fronte ai giovani che intraprendono la carriera mafiosa e commettono i primi omicidi, favorendo così l’assunzione ad un “mestiere ambito”. Che cosa, secondo lei, offusca le menti di questi ragazzi che non riescono a percepire la gravità delle loro azioni?
R - Basta pensare che a Napoli ci sono 5 latitanti fra i più pericolosi di tutta Italia: si tratta di ragazzi che hanno solo 22-23 anni, considerati i nuovi agitatori della camorra. Davanti a questa realtà non possiamo negare come la società, le istituzioni, le famiglie, la scuola hanno fallito. Questi giovani sarebbero dovuti crescere in contesti differenti dalle loro famiglie per consentire loro di scegliere una traiettoria differente da quella dei genitori. In questo senso il giornalismo può contribuire a coinvolgere il cittadino e a rompere le regole del mondo della criminalità organizzata per sentirsi meno solo nel momento in cui decide di ribellarsi.

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